Renzi vuole il voto, blinda le liste Pd e non rinuncia a comandare

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Milano 28 Gennaio – Soffia forte il vento delle urne in un Pd già balcanizzato. Renzi ha fissata in mente la data dell’11 giugno e già si interroga con i suoi se convenga fare una lista-coalizione alla Camera puntando a lambire il 40%; o se sia meglio lo schema del Pd e dei partiti satelliti. Alla possibilità che questo Parlamento riesca a sfornare una legge elettorale in tempo utile il leader Pd non crede: se non ci saranno impedimenti determinati dalle motivazioni della Consulta, la via maestra sarà andare al voto a giugno con le leggi della Corte.

L’uscita di scena soft

D’intesa con Gentiloni però, su uno schema che dunque non prevede per forza un incidente parlamentare. Il Pd non ha più alcuna convenienza a riaprire un canale di trattativa con Berlusconi perchè dopo la sentenza il coltello è passato in mano a Renzi. «Se di qui a febbraio vorranno fare questo lavoro con il Pd bene, ma non dovete dar l’idea di pensare solo alla legge elettorale», è la richiesta perentoria del leader ai suoi. Convinto per primo che non può tornare sulla scena ad occuparsi di una cosa che riguarda solo la classe politica e non il paese.

Spauracchio preferenze

Soffia il vento delle urne dunque e già si interroga l’intendenza bersaniana su quanti posti in lista potrà avere: la risposta è nessuno, se si intendono quelli nelle liste bloccate, quella dei nominati dal capo. Che infatti già se la ride, «voglio vedere quanti voti prenderà Gotor», va ripetendo, godendosi anzitempo la caccia alle preferenze cui condannerà i dissidenti, i gufi che hanno remato contro al referendum e che hanno contribuito a farlo dimettere. Anche per questo rispunta lo spettro di una scissione: quando uno che pesa le parole come Nico Stumpo dice «vediamo se regge il Pd», si capisce che gli ex comunisti valuteranno se gli convenga di più restare o staccarsi e andare da soli. Visto che la soglia del tre per cento alla Camera è bassa e che comunque la corsa ad aggregarsi prima e dopo il voto magari li porterà a trattare con Renzi da una posizione di forza. Certo è che il segretario ora è tornato il «dominus» del partito (Dario Franceschini ha fatto sapere agli ambasciatori renziani che non ha intenzione di sollevare problemi sul voto) e dunque anche il «dominus» delle candidature: può decidere un centinaio di collocazioni sicure – in base al calcolo a spanne che il 30% dei voti alla Camera garantisce circa cento seggi – spartendo il suo potere tra le varie correnti che anelano posti al sole.

L’arma dei tre mandati

E che vi sia tanta elettricità nell’aria, se pure siano discorsi prematuri, lo dimostra il fatto che venga brandita un’arma in più nella tasca del leader: è significativo l’elenco che i fiorentini amici di Matteo sciorinano di tutti quelli che avranno bisogno di una deroga (votata in Direzione dove Renzi ha la maggioranza) perché giunti al capolinea dei tre mandati. Una regola dello statuto che risparmia per ora solo i renziani di prima nomina. Tanto per dire, il primo della lista è proprio Paolo Gentiloni e poi ecco gli ex rutelliani, come Ermete Realacci e Luigi Zanda, ma anche il turborenziano Roberto Giachetti. Per non dire di Franceschini e di molti dei suoi parlamentari, fino ad arrivare allo stesso Bersani, seguito dai vari Migliavacca, Chiti e compagni. E se l’ex segretario i voti li ha in tasca in ogni caso, per altri ci sarà da faticare. Anche per i renziani, «perché si illudono quelli che vedono i posti sicuri destinati tutti al ceto politico… arriveranno sorprese».

Carlo Bertini (La Stampa)

 

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