Ha l’affanno per una lunga corsa contro il tempo, il fiato rotto che singhiozza amarezza, il delirio silenzioso di una solitudine invincibile, le mani stanche intrecciate quasi in una preghiera. Cercava la luna. Ha sempre cercato la sua luna. Gli stracci coccolano una figura informe su una panchina in ombra e puzzano di strada e di rinunce. Barcolla, gesticola, seguendo un sogno, una musica.. chissà.. o rivedendo lampi che scappano, fragili come i ricordi.
Ma gli altri che ne sanno della sua vita?
Anch’io sono stata bambina, la bocca imbronciata, il fiocco colorato in testa e tanti perché. Perché i fiori, i prati, le foglie piangono al mattino? Perché la bicicletta sa correre? Perché i burattini diventano vivi e raccontano storie? Perché nell’aia si canta e si promette amore? Perché i colori all’imbrunire si dissolvono fino a scomparire all’orizzonte?
Ho imparato a sognare con Orio Vergani e Barzini che scrivevano su quel grande giornale quasi una reliquia, da sfogliare con devozione, solo alla domenica, una fetta di ciambella in mano, il camino acceso, il mondo in una stanza con un topolino educato come un uccellino. Alla sera, da allora cercavo la mia luna, grande, luminosa che mi invitasse a viaggiare, in una dimensione sconosciuta, attraversando gli oceani, scalando le montagne, per conquistare il mio pezzo di mondo.
Sono stata una giovane donna con uno “spicchio di sole” (Kerouac) nel cuore, caldo e generoso, da proteggere e curare nei giorni inevitabili di pianto. Leggevo la luna e, sì, Milano mi succhiò l’anima, il sangue. Stupì due occhi spalancati e curiosi e vorticosamente mi portò sulla sua giostra, senza freni, nella libertà di una vita di conquista. Uomini scialbi, uomini presuntuosi, uomini vincenti, uomini immaturi, uomini pragmatici, uomini. Studiavo filosofia in un bar dove giocavano al biliardo per non stare sola. La luna si era nascosta, forse si specchiava nel bicchiere di vodka, nella musica religiosamente ascoltata in una cantina vestita di miseria, il caldo soffocante delle sere d’estate, a Brera, quando ridere o piangere diventava una drammaturgia comune. Ma quella luna non parlava, forse sonnecchiava in attesa.
Sposai un pittore, in una giornata d’autunno, con il pallore e il naso rosso per il freddo improvviso, dondolando fiera in una gonna vibrante di colori da vera hippy. Pensavo a Dio che, forse, all’ottavo giorno creò la poesia per legare gli uomini con un respiro divino comune. Ma il pittore non era un poeta, ma un imitatore che andava in scena senza un perché. Mi ritrovai nello squallore di una casa diroccata, una candela accesa con cui parlare e vomitare imprecazioni irripetibili, un materasso puzzolente in un angolo, la ciotola di pasta in mano. Quante volte pensai al suicidio? Libera di autodeterminare, libera di sussurrare a un cuore stanco poesie d’amore che riemergevano aggrappandomi a quel filo comune che ci avvicina a Dio.
I treni sferragliavano rumore e velocità, al di là di una finestra arrugginita, ma mi annegai nell’acqua dei rimpianti, senza volontà. Fuori un violino pareva piangere, ma
“In cima ad un violino
ci sta forse un respiro
che nessuno raccoglie
perché è un senso d’amore.
Tu suoni per il vento e viaggi
Va dove la pace sussurra tra le piante
tutta una nostalgia”
(Alda Merini)
Da allora la strada è la mia libertà, ingoio freddo e fame, danzo per me, guardo la frenesia degli uomini, gli studenti che ridono, le librerie che ammiccano, l’acciottolato di una storia antica, il castagnaccio che mi piace tanto. Anch’io c’ero, vent’anni fa.
Dove sarà la sua luna? Liana ha smesso di cercarla.
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Nene Ferrandi (dal blog di Arte e Letteratura Voce Blu)

Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano