Sala Malagodi, Fondazione Einaudi, isola liberale, nel bel mezzo del regno del Papa Re. Ora il clima è calmo ma qui si consumò l’ultimo urto scissionista trentennale italiano, quasi in extremis. Ci furono due fondazioni, una salvata dai soldi di Berlusconi ed un’altra, dalle anime belle e della famiglia Einaudi, che rifiutava l’assorbimento di cotanta storia nella palude di Arcore. Intanto una terza, da Torino, algidamente osservava la disputa ancora più sdegnosa di riconoscere l’ambita targa di liberale al campione dello schieramento politico liberale.
Non è chiaro come nella successiva pacificazione e ritirata del Cavaliere, si siano poi ritrovati, sodali uno accanto all’altro, i fautori di una tesi e dell’altra, ciascuno ad esibire e lodare monumentali librerie museali del santo protettore dei liberali italiani, quell’Einaudi che fu Presidente ed icona di se stesso, umano e divino, teoria economica fattasi carne. La presentazione però del primo romanzo ucronico, Il Ducetto, del bocconiano De Nicola, professore pluridecorato e avvocato d’azione, rimarca che l’unica costante è che niente è come sembra.
È subito palese la fascinazione esercitata dal ricordo della destra imperante sui commentatori, campioni liberali, il segretario della fondazione Cangini, già senatore e direttore de Il Resto del Carlino, diretto anche dal padre Franco che pure guidò anche Il Giornale di Montanelli, ed alla morte si fece seppellire in camicia nera; il noto giornalista Battista, che ricordò il padre avvocato Vittorio nel Mio padre era fascista; il crociano Desiderio che entrò nel giornalismo al Secolo d’Italia. Finisce per apparire il meno reducista proprio quel Gervasoni che ha pagato il sostegno al sovranismo con una persecuzione da sovietismo redivivo. Sottotitolo del romanzo di De Nicola è trentesimo dell’era fascista. In effetti il volume si apre sui preparativi per i festeggiamenti del trentesimo della Marcia su Roma nella domenica del 26 ottobre 1952.
Si immagina che l’Italia non sia entrata in guerra (fondamentalmente per una malattia mortale del Duce). come la Spagna di Franco e la Turchia di Ataturk e İnönü; conseguentemente che il fascismo non sia caduto, che Mussolini sia morto fra gli onori, lasciando il posto all’erede naturale, il genero Ciano, appunto, il Ducetto. Tutte previsioni piane nella loro consequenzialità, accettate senza disputa dagli storici di ogni tendenza, dato che non si vede cosa e chi, unicamente dall’interno. potessero far vacillare il regime, stabile e popolare. L’Italia dei ’50 descritta dal romanzo, un Paese popolato da fascisti senza camicia nera o con camicia molto scolorita, non è lontana dalla realtà dato il blocco clericalfascista che elettoralmente la dominò storicamente.
La storia si concentra in un sola settimana frenetica nella quale la figlia snob di un massone barone universitario (con immancabile Elvira, giovane segretaria), l’avvocata milanese Scotti di Castiglioni, detta stoccafisso, il commissario veneziano Contarini ed il fedele brigadiere Colantuoni della squadra politica della Questura di Milano sono coinvolti nelle indagini su un intrigo politico internazionale. Il fratello dell’amica della Castiglioni, che potrebbe ricordare la figura del fratello Petacci, è accusato di avere ordito un complotto per assassinare il Presidente Conte Gian Galeazzo. L’ipotesi è che Ciano, per avvicinare l’Italia ai vittoriosi Usa, intenda liberalizzare il sistema politico, malgrado la cruenta conquista dell’Albania. All’idea di liberalizzare si scatenano reazioni rabbiose contrarie dei fascisti estremisti, tra cui Pavolini, già principe dei golden boys dello stesso Conte, sia dei fascisti moderati e di regime, sia, paradossalmente ai medesimi oppositori. Non mancano le reazioni opportunistiche, come l’entusiasmo di Gentile all’ordine di condire il suo attualismo con un po’ di liberalismo.
Le indagini, giustamente condotte nello spirito delle spirali dei fumi della pipa da Maigret, versione Cervi, scoprono un piano fasciocomunista di decianizzazione dove vengono passati al vaglio gerarchi come Grandi, Bottai, Federzoni, Farinacci; un Fanfani giovane giornalista fascista (ma storicamente ci poteva stare pure Spadolini) ed anche Togliatti, rimasto all’hotel Lux di Mosca. Intanto fascisti come Borghese, vogliosi di azione, ridono in faccia delle mistiche pagane di Evola.
Nella tradizione dei migliori romanzi ucronici di fantapolitica (L’uomo nell’alto castello, Fatherland, Lui è tornato), la narrazione è meticolosa nella descrizione nelle tecniche, anche di comunicazione, dell’epoca, come nelle mode, nei cliches, nelle abitudini, nelle canzoni della Pizzi e di Montand. È affilata nel delineare i contrasti eterni tra Roma e Milano, in particolare tra le loro comunità apicali femminili. I casi, trattati dall’eroina avvocata, il lunedì 27 di inizio settimana, la violenza domestica femminicidaria di un figlio ai danni della madre e le truffe a coppie anziane basate su false vendite di appartamenti di Santa Margherita Ligure, rimandano all’oggi. Il milanesismo dell’autore venetolombardo è evidente nel ritratto ambrosiano di Monaco di Baviera italiana, culla del regime, alter ego della romanità fascista, una città prospera, in crescita, non ridotta a fantasma sfigurato dalla guerra, cumulo di macerie per i bombardamenti a tappeto. Lo spunto iniziale del romanzo è proprio l’immaginazione di un Belpaese intonso dalle distruzioni belliche; soprattutto vergine dagli strazi delle ricostruzioni corrotte de le mani sulla città, particolarmente sentite nell’altro ramo ascendente, campano, dell’autore.
La destruzione dell’arcitaliano sta tutto in un Ciano ridotto alla macchietta del Sordi nazionalpopolare democristo del dopoguerra, un italiano meschino, vigliacco, opportunista, trasformista, doppiogiochista, sempre sul carro del vincitore, che non può più, come l’augusto suocero, fungere defelicianamente da fulcro equilibrista delle variegate anime del regime e quindi invoglia al golpe. Si rivivono nell’inventato passato le vicende meno antiche dei servizi segreti deviati, attentati, terrorismi, spy story, intrighi internazionali, lotte intestine tra estrem asinistra e Picci, fino alle soffiate sui rapporti tra Stato, stato deviato e criminalità organizzata. Togliatti medesimo, nel suo cinismo, non è troppo migliore del ducetto anche perché è chiaro che il vero comunista sincero è Bottai, omaggiato nel dibattito dal ricordo toponomastico che Rutelli voleva dedicargli come governatore di Roma.
Il dibattito tra i celebri figli di celebri padri si infervora sull’elemento impossibilitante la sopravvivenza postbellica del fascismo che Battista individua nelle leggi razziali. De Nicola ricorda invece il passaggio indolore dal regime alla democrazia avutosi nel Cile di Pinochet. Tutti sono entusiasti del parallelismo dell’invenzione storica con l’attualità alle prese con il cambio paradigmatico di sistema politico e con la liberalizzazione. Non manca una strisciante soddisfazione per il nordismo e per il mancato scoppio della bolla scandalistica anticorruzione destinata a rovinare i destini di due repubbliche. Nessuno sembra accorgersi dell’incontinenza dei liberali dell’epoca, di cui viene citata en passant solo una figura minore.
La giovane avvocata, nata non a caso il giorno della vittoria, supererà il mercoledì, giorno dei festeggiamenti di un’Italia isola felice di faningott in camisa nera, come dice il portinaio Giobatta, sfaccendati felici di rievocare le marce e di recitare gli slogan delle manifestazioni (se la Francia la fa la troia le si piglia Nizza e Savoia), tra danze, esibizioni ginniche e paramilitari di papaveri, papere, balilla, avanguardisti, Gioventù Italiana del Littorio e Giovani Italiane. E risolverà il caso entro la domenica, che, come altre cose italiane, poco interesserà all’Europa bombardata e devastata dalla guerra.

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.