Incursione antifascista

Esteri RomaPost

In Occidente si può giocare alla lotta tra fascisti e antifascisti, come i bambini di un tempo lo facevano a cowboy e indiani. E’ solo acqua fresca buona per una polemica strumentale, una barzelletta, un odio da cortile senza basi economiche, sociali, culturali, giusto una tifoseria sbiadita per i tempi che furono negli anni di piombo a richiamare una nebbiosa lontana realtà persa nel tempo in cui un pensiero equivaleva con la vita. Ad est no, le parole pesano come pietre; non abbaiano, mordono subito ed a sangue.

In Occidente gli Antifa sono un mix di nemici di Trump e di coloro, nemmeno conservatori, che si sono stufati di dover dire che il Re nudo è ben vestito e di edulcorare la realtà. Vedono che i neri affollano le carceri e le file delle forze dell’ordine; che prendono il sussidio. Non capiscono perché se ne dovrebbe fare un modello. Non è suprematismo riconoscere che sono i bianchi a tirare la carretta. Gli Antifa e tutte le varianti progressiste chiamano fascista qualunque regola compresa quella condominiale; così quando vengono assumono responsabilità gestionali e devono governare la realtà, devono cambiare del tutto l’approccio; si deludono sconfortati e si deprimono accusando i loro leader di tradimento, solo perché i sogni non si realizzano. Certo i trumpiani esagerano, a urlare l’elogio dello zucchero in casa diabetica.

L’Europa è tutto un assurdo. Strisciano, volano, sussultano, scalpitano, corrono migliaia di sigle, di denominazioni, di titoli che fanno riferimento alle storie rivoluzionari del passato lontano, quando il proprio credo religioso o laico valeva il sangue del nemico e proprio. Tutte queste sigle poi attuano i comandamenti dell’economia tecnologica per più goduria, più salute, più eternità, più consumismo, anche per gli animaii domestici; l’economia tecnologica migliora sempre e scaccia qualunque dibattito perché l’innovazione per forza di cose lascia indietro qualcuno, l’importante è che sia sparuta minoranza che non infici i grandi consumi. La democrazia viene confusa con l’esaltazione della lite giudiziaria di massa, nel basso tra persone e tra istituzioni. Le scelte di fondo non vengono più votate perché divinamente arrivano per forza di cose. Tutti coloro che vedono autoritarismo in ogni cosa magnificamente ubbidiscono alla regolazione divina dei loro comportamenti quotidiani. In fondo si conta sul garbo, sull’educazione, sulla civiltà dei professionisti del potere tecnologico e finanziario. Se si dà al nemico politico l’epiteto di massacratore liceale, di nazista sterminatore, è uno scherzo che non ha nulla a che vedere con il salvataggio dei posti di lavoro, con la sanità regionale, con le ordinanze comunali, con le decisioni imprenditoriali. Nelle cose serie c’è ben poco da contendere; c’è solo la preoccupazione comune di perdere l’indipendenza decisionale anche nelle piccole cose.

Ad est lungo le frontiere slave profonde dell’Ucraj, dei piccoli e grandi russi, le cose sono molto diverse. L’economia è strutturalmente debole, imitativa dell’Occidente, figlia di accentramenti geografici e merceologici. Si fonda sulla fornitura al mondo del consumo, come del grano di due secoli fa, oggi dell’energia. L’economia non è sovrana, le multinazionali non sono indipendenti ma al contrario gli Organi che si identificavano con lo Stato, nei secoli divenuto spina dorsale di popolo e terra, ne sono proprietari. E un modello semplice rispetto alle complessità occidentali, in gran parte copiate nei suoi effetti esteriori e solo dove si possono concentrare le risorse. Qui si investe in pochi campi, soprattutto nella forza; il secondino ed il prigioniero del Gulag concordano sull’idea di unità slava, presupposto per la profondità psicologia dell’anima comune, persa nella meditazione solitaria e nella disponibilità ad accettare quel che c’è, sia poco, sia tanto. Da consumare subito fintanto che è possibile.

La forza non è seduttiva come lo schermo dello smartphone, anche se i games ne tessono l’elogio perenne. La forza meraviglia quando è necessaria e per questo tutti i richiami turchi turanici culturali in Kazachstan sono saltati come birilli alla richiesta d’aiuto dell’antico padrone. Rapida, dolorosa, veloce, efficace la forza russa è arrivata, ribadendo la sua presenza nell’Asia centrale. Si è già ritirata ed ha svolto il compito di miliardi di ore di pubblicità, di miliardi di tonnellate di consumi, di milioni di libri. In questo quadrante est, dalla comune anima e mentalità, si accalcano pezzi dell’Unione Europea, i più poveri, e se non tali, i meno relativisti, e pezzi extracomunitari poveri e poverissimi, ostaggi di economie incredibili, degli orfani e delle pance gravide in affitto. La povertà non preoccupa e questa è la difesa principale dalle sanzioni presenti e future. L’unica risposta efficace alla forza sarebbero miriadi di pezzi di cioccolata lanciati sulla folla dai garibaldini marziani ma l’Occidente non la persegue perché ritiene la nuova Guerra Fredda un problema superato, anche quando ammette serenamente la plausibilità di una prossima incursione armata russa in territorio ucraino.

A Mosca, il cui fondatore è un kivliano, Dugin, oppositore di destra di Putin, recita in italiano il mito della Terza Roma che in terra slava arrivò da Bisanzio tramite la KievskaiaRus, dove già regnarono i Riurikidi, predecessori dei Romanov. Quando la Moscovia si inginocchiò ai dorati mongoli, la Kievskaia divenne il Paese degli schiavi bianchi (Biladas-Saqalibat) per mano musulmana, ebrea e veneziana. Qui il numero degli schiavi superò quello afriamericano in un periodo più lungo di molti secoli. Come il Papato romano non amò i rivali Romani di Bisanzio, neppure la Russia moderna gradì la sua Bisanzio, cioè Kiїv. E gli ucraini, popoli diversi schiacciati tra Moscovia, Polonia e terre mongoloturche, per difendere la propria indipendenza si appoggiarono sempre ad invasori sconfitti, gli svedesi di Mazepa, i tedeschi ed i polacchi di Pietliura, i bianchi ed i nazisti di Krassnov e Bandera o la guerriglia anarchica di Machno.

Se la Polonia soffrì il tallone nazista e quello comunista, l’Ucraina ne soffrì anche un terzo, quello della caccia agli sterminatori nazisti, tra cui molti furono ucraini. A Kiїv però la storia degli antifascisti e dei fascisti non fu quella odierna nostrana, al paragone ridicola. La lotta antifascista delle città alle campagne toccò atrocità che neppure la Shoah conobbe per un tempo doppio. Non si ricorda il cannibalismo di massa reciproco tra gli ebrei affamati, come nell’Ucraina raccontata dai nostri consolati. I metodi dei nazisti conquistatori e schiavisti apparivano migliori; quando gli antifascisti tornarono la vendetta fu atroce, ma più industriale e normata del Gulag. Ecco perché in Ucraina dare del comunista è peggio che dare del nazista. A Mosca rispondono con banderovizi, seguaci di Bandera, un nazionalista che avrebbe seguito Hitler se questi non l’avesse rifiutato, e dalla fine combatté contro tutti, quasi fino al ’50. E l’insulto non va alla libertà o ai diritti umani, che tutti erano parimenti antisemiti, ma all’incapacità di vincere, di determinarsi, di trovare la forza ed un alleato valido. Qui ad est ci si dà del comunista e del nazista, del fascista e dell’antifascista con la consapevolezza della atrocità dei termini; per l’orrore di ieri, per le repressioni durate fino a pochi anni fa, per le morti che civili e paramilitari proseguono all’infinito. Chi usa queste parole si ricordi dei luoghi dove hanno un senso tragico.

L’Occidente ha messo di nuovo l’Ucraina nella posizione di essere considerata da San Pietroburgo a Vladivostok, traditrice degli slavi. Un altro alleato balbettante che la lascerà nei guai militari e senza sostegni economici. Quando i militari russi prenderanno le frontiere ucrainobielorusse in pegno con la morbida incursione prospettata dallo sconfortato Biden, non resterà che mettere in stand by l’entrata di Kiїv nella Nato.

Succederà il 28 gennaio quando al primo voto utile, davanti al disastro si eleggerà di volata Berlusconi Presidente. Perché voli subito ad Oriente a fermare la guerra.

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