Ma il referenzum lo paghiamo noi

Attualità

Milano 10 Agosto – La Cassazione ha appena dato il via libera al referendum sulla riforma costituzionale. Una formalità che fa partire l’iter di quello che sarà l’autunno caldo di Matteo Renzi. Il premier ha 60 giorni di tempo per scegliere la data che, esaurito il toto numeri di questi mesi, dovrebbe coincidere con il 20 o il 27 novembre prossimi. Bene, anche se la democrazia, chiamiamola così, ha un prezzo. Un obolo che, anche questa volta, sono i cittadini a versare: il partito democratico, allestendo banchetti in ogni dove, stalkerando i passanti in ogni angolo delle città e dei paesini italiani a tutte le ore del giorno e della notte (c’è chi giura di aver avvistato gazebo anche sulle spiagge o nelle discoteche di riviera), è riuscito a raccogliere, entro la scadenza del 14 luglio, le famigerate 500mila firmenecessarie per ottenere i rimborsi. Sì, perché secondo una legge del 1999 (ah, la rottamazione) il comitato che promuove un referendum – in questo caso sono sia quello per il “Sì” che quello per il “No” – ha diritto ad un rimborso di un euro a firma se ne raggiunge, appunto, 500mila. Mentre dunque i promotori del “No” non hanno raggiunto il numero minimo, i piddini si metteranno in tasca 500mila euro, anche qualora non si raggiungesse il quorum.

Con buona pace di chi ne stava festeggiando l’abolizione decisa dal governo Letta, il finanziamento pubblico ai partiti è tornato travestito da indennizzo referendario: pensato come risarcimento per il lavoro dei comitati civici che generalmente raccolgono le adesioni per le consultazioni, ora andrà anche al partito democratico che ha furbescamente istituito il suo. La faccenda non è nuova: l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, per citare un esempio, con questo escamotage nel 2011 ha incassato più di 1 milione di euro. Ma torniamo a noi: 500mila euro è la cifra che gli italiani dovranno sborsare per decidere se mandare a casa o meno il governo Renzi. E il paradosso è che a pagare saranno anche quei residenti al Nord che, con questa riforma costituzionale caratterizzata da un forte centralismo, saranno ancora più penalizzati, vedendo definitivamente tramontare il sogno di quel federalismo fiscale che persino alcuni esponenti dem chiedono a gran voce da anni. Non solo, non è questo l’unico prezzo da pagare: lo slittamento della consultazione da inizio ottobre a fine novembre è dovuto, pare, alla volontà di mandare prima in porto la Legge di Stabilità. Che, tradotto dal politichese significa: mettendo insieme il bilancio cerchiamo di accontentare tutti, di modo che poi siano più propensi a votare “Sì”. Le mancette d’autunno, dunque, saranno servite e se qualcuno ne beneficerà, qualcuno, nell’economia del pallottoliere, ne farà le spese. E se poi Renzi, nonostante abbia promesso le dimissioni in caso di vittoria dei “No”, non si dimettesse? Avremmo tutti pagato per restare nella stessa situazione di oggi. Senza riforme (e non è un male), con tutto da rifare e con un premier politicamente debole ma sempre al suo posto. Era meglio andare a votare, gratis (o quasi).

Federica Venni (L’Intraprendente)

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