RINUNCIARE ALLA PRESCRIZIONE COME HA FATTO TRONCHETTI PROVERA, CI VUOLE CORAGGIO, MA ANCHE SOLDI E SALUTE

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Milano 20 Aprile – Ha avuto grande spazio sui giornali la decisione di Marco Tronchetti Provera di rinunciare alla prescrizione nel processo d’appello in corso a Milano. L’ex capo di Telecom era stato condannato in primo grado ad un anno ed otto mesi per ricettazione. Trattandosi di fatti commessi nel 2004, la prescrizione era intervenuta già lo scorso settembre, rendendo di fatto inutile lo svolgimento del processo di secondo grado. Ma Tronchetti Provera, come riportato sul Corriere della Sera da Luigi Ferrarella, sempre ben informato sulle vicende del Palazzo di giustizia milanese, vuole “che i fatti siano accertati”. Ritenendosi innocente, considera “moralmente inaccettabile” che cali l’oblio della prescrizione sulla condanna di primo grado.

Non entro nel merito delle accuse, che non conosco, mosse a Tronchetti Provera. Mi permetto però di dire che la scelta di rinunciare alla prescrizione dimostra, senza ombra di dubbio, grande carattere e, soprattutto, coraggio. E’ l’orgoglio ferito di un imprenditore che non accetta che la sua storia professionale sia infangata da una condanna per una reato che normalmente commette chi rivende le autoradio rubate al mercato di Porta Portese e non un capitano d’industria ai vertici di uno dei più grandi gruppi di telecomunicazioni europeo.

Fatta questa premessa, ritengo che si debbano fare alcune considerazioni.

Tralasciando quanto, soprattutto su questo giornale, è stato scritto in tema di prescrizione del reato, norma di diritto sostanziale prevista già dal fascismo che il governo Renzi sotto la spinta del partito dei pubblici ministeri e della stampa forcaiola che li fiancheggia ha voluto stravolgere, rendendo eterni i processi per i reati commessi dal pubblico ufficiale (20 anni, ad esempio, per la prescrizione del reato di concussione), considero il gesto di rinunciare alla prescrizione uno “sfizio” che solo chi nella vita ha avuto tutto può permettersi. E spiegherò perché.

Affrontare un processo sine die, magari per sopperire a condotte dilatatorie del pubblico ministero che ha atteso anni prima di esercitare l’azione penale, ben consapevole della totale impunità, anche sotto l’aspetto disciplinare non essendo per lui previste sanzioni, a differenza del giudice che ritarda il deposito di una sentenza (su questo aspetto la Commissione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura è inflessibile), non è cosa per tutti. Solo chi non ha bisogno di lavorare, e non deve lavorare, può permettersi di diventare un imputato in servizio permanente effettivo.

Per affrontare un processo penale senza limiti temporali servono tre fondamentali presupposti. Che provo a riassumere:

Grande disponibilità di denaro, in quanto gli avvocati costano. E’ sufficiente un rapido sguardo all’ultimo tariffario forense per rendersi conto che il diritto di difesa in Italia è un lusso che non tutti possono permettersi. Si tratta di soldi a fondo perduto perché in caso di assoluzione non è previsto che lo Stato risarcisca le spese affrontate. A differenza, ad esempio, di quanto accade in Gran Bretagna.

Grande disponibilità di tempo per presenziare alle udienze, alle riunioni con gli avvocati, alla lettura degli atti d’indagine. Tutto tempo che viene, per forza di cose, tolto al lavoro e alla famiglia.

Grande forza psico-fisica per reggere lo stress di un processo che, come diceva Carnelutti, è già una pena. Frequentare le aule di giustizia non è come frequentare il circolo del Bridge.

Proprio per questi motivi i casi di chi rinuncia alla prescrizione sono più unici che rari. Nessuno ha voglia di restare “impantanato” per la vita nel processo infinito. Uno che ha rinunciato alla prescrizione è il generale dei Carabinieri Mario Mori, già comandante del Ros e direttore del Sisde, persona a cui va tutta la mia stima, il quale a quasi settantasei anni invece di godersi la meritata pensione sta affrontando quella giostra giudiziaria che è il processo alla Trattativa Stato – Mafia. Ma Mario Mori, per il quale il processo è diventato la forma stessa della sua vita, è la conferma di quanto scritto in precedenza. E’ in pensione, ha risorse economiche sufficienti, dopo essere stato ai vertici degli apparati di sicurezza del Paese, per gestire una difesa in un processo incredibile come quello di Palermo. Probabilmente se fosse stato in servizio si sarebbe comportato diversamente. Si ricordi, infatti, che per un militare è sufficiente il rinvio a giudizio per essere estromesso dall’avanzamento. Come può conciliarsi la legittima aspettativa di progressione di carriera con i tempi infiniti del processo qualcuno dovrebbe spiegarlo. Anche perché il risarcimento postumo in caso di assoluzione dopo vent’anni non serve a nessuno. La vita, ormai, è trascorsa e non si può tornare indietro.

Purtroppo, per “sopravvivere”, essendo puntualmente disatteso il secondo comma dell’articolo 111 Costituzione, bisogna accettare la prescrizione. Anche obtorto collo. Come disse Giulio Andreotti parlando di se dopo che il reato di associazione a delinquere si era prescritto: “Meglio di niente. Ce ne faremo una ragione”.