Nomadi digitali: occasione o moda? L’Italia e il mondo a confronto

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Un esercito di 40–80 milioni di lavoratori on the road, perlopiù americani, alimentato da smart working e incentivi governativi: l’Italia sogna di attrarli ma si scontra con la burocrazia.

Negli ultimi anni parole come digital nomad e working holiday sono entrate nel vocabolario comune, ma dietro il glamour dei post su Instagram c’è una comunità in rapida espansione. Le stime più attendibili parlano di 40–80 milioni di nomadi digitali nel mondo, e quasi la metà (44 %) arriva dagli Stati Uniti. Solo negli USA 18,1 milioni di lavoratori si definiscono nomadi digitali, l’11 % della forza lavoro, con un incremento del 147 % rispetto al 2019. L’età media è di 36 anni e quasi un nomade su due ha tra i 30 e i 39 anni; più del 90 % possiede un titolo di studio universitario. Non si tratta solo di freelance: il 56 % mantiene un contratto a tempo pieno, e la maggior parte guadagna tra i 50 000 e i 250 000 dollari l’anno.

Ma chi sono davvero questi nomadi? La definizione più citata li descrive come professionisti che lavorano online, senza un ufficio fisso e che spostano la propria vita dove trovano una buona connessione. A differenza dei normali lavoratori da remoto, la loro identità è legata al movimento: possono passare da un coworking di Berlino a un caffè di Chiang Mai nel giro di poche settimane. La portata economica del fenomeno è tutt’altro che marginale: si stima che i nomadi digitali iniettino quasi 800 milioni di dollari all’anno nell’economia globale attraverso alloggi, ristorazione e coworking.

La pandemia e l’evoluzione tecnologica hanno fatto da volano. L’espansione del lavoro da remoto, internet veloce e il desiderio di flessibilità hanno spinto molti a fare le valigie. Alcuni governi, come la Spagna con il progetto Ambroz Valley, offrono perfino incentivi in denaro (circa 16620 $ per chi si trasferisce due anni) per attirare professionisti mobili. Anche i programmi di working holiday hanno un ruolo: permettono di lavorare temporaneamente all’estero, imparando una lingua e immergendosi in una nuova cultura. In breve, il nomadismo digitale risponde al desiderio di libertà e di equilibrio tra vita e lavoro.

L’Italia: bellezza, cucina e… burocrazia

L’Italia non poteva restare a guardare. Con la sua miscela di storia, arte, cucina e paesaggi mozzafiato, è diventata una delle mete più ambite dai nomadi digitali. Dal 2024 il paese offre un visto per nomadi digitali che permette a professionisti non europei di vivere e lavorare qui per un anno rinnovabile. È pensato per freelance altamente qualificati o lavoratori dipendenti che possono svolgere le loro mansioni interamente da remoto. I benefici sono interessanti: permanenza prolungata, libertà di movimento nell’area Schengen e possibilità di includere la famiglia.

Ma non è tutto oro quello che luccica: il visto richiede un reddito minimo di circa €25000 l’anno e una laurea o un’alta qualificazione professionale. Inoltre, tra i documenti servono un contratto con un’azienda estera, assicurazione medica da 30 000 € e la dimostrazione di un alloggio. Insomma, una burocrazia non proprio snella che rischia di scoraggiare chi non appartiene già a un’élite.

Destinazioni italiane per nomadi digitali

Se superate gli ostacoli burocratici, l’Italia ripaga con esperienze uniche. Le Dolomiti offrono rifugi con connessione e coworking tra trekking e sciate.  In Toscana si può lavorare tra le vigne e i casali, godendo della storia e della cucina locale.  La Sardegna, con il suo mare cristallino, accoglie nomadi tutto l’anno e promuove eventi come il Festival del Turismo Itinerante, che mette in contatto i lavoratori in viaggio con le comunità locali (visititaly.eu). Questa è forse l’Italia più interessante: un turismo lento che valorizza territori meno conosciuti e permette di intrecciare relazioni autentiche.

Uno sguardo oltre confine

La moda dei nomadi digitali non è solo italiana. Secondo il Global Digital Nomad Index, l’Europa è oggi la destinazione preferita grazie a infrastrutture solide e visti favorevoli (globalcitizensolutions.com). Spagna e Portogallo offrono visti per nomadi con soglie di reddito relativamente basse (2 500 € per la Spagna) e agevolazioni fiscali, come l’aliquota ridotta al 15 % per quattro anni in Spagna. Estonia, pioniera in digitale, richiede un reddito minimo più alto (3 500 € al mese) ma mette a disposizione un sistema amministrativo interamente online e un ecosistema di startup vivacissimo.

Fuori dall’Europa, Paesi come Thailandia attirano per il costo della vita basso, il clima tropicale e la lunga durata dei visti (fino a dieci anni).  Tuttavia, i requisiti economici possono essere più elevati: per il visto LTR thailandese serve un reddito annuale di almeno 80 000 $.  Insomma, il panorama globale è vario e consente di scegliere in base alle proprie esigenze di budget e stile di vita.

La mia opinione: opportunità da cogliere con cautela

Da giornalista e amante della mia terra, vedo nei nomadi digitali un’opportunità per rilanciare zone dimenticate e promuovere un turismo più sostenibile. Eventi come il Festival del Turismo Itinerante in Sardegna dimostrano che i nomadi possono portare beneficio economico e culturale alle comunità. Allo stesso tempo, però, non possiamo ignorare i rischi: affitti che salgono, gentrificazione dei centri storici e perdita di autenticità.

Il visto italiano, pur positivo, resta elitario. Per attrarre veramente nomadi digitali bisognerebbe semplificare la burocrazia, abbassare le soglie di reddito e investire in infrastrutture (trasporti, connessioni veloci) anche nelle aree rurali. Inoltre, serve educare sia i viaggiatori sia le comunità locali a uno scambio rispettoso: lavorare da remoto non significa vivere in una bolla, ma intrecciarsi con il tessuto sociale del luogo e restituire valore.

Alla fine dei conti il fenomeno dei nomadi digitali è qui per restare. L’Italia ha tutte le carte per diventare una meta di punta, ma deve scegliere se essere un semplice scenario da cartolina o un laboratorio di turismo responsabile. Guardando a ciò che accade in Spagna, Estonia o Thailandia, possiamo prendere spunto e, perché no, fare meglio.

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