Seduta su un gradino sbriciolato dal tempo, la piccola Ena cercava nel vento una voce
Il pianto, un silenzioso singhiozzo, e quelle sere lente e uguali, sempre in attesa, e quella scalinata maledetta, scavata nella collina… anche le margherite sorridevano timidamente e le oche si sentivano regine, e poi gli scarponi dei pastori in marcia senza far rumore, i partigiani vestiti da pastori, una fisarmonica silenziosa e il belare quasi fosse una festa delle pecore. Ritornavano dalla montagna, al paese, a Bettola, quando le prime ombre coloravano di calore i passi e i pensieri. Ma mamma Anita non c’era, da tanti giorni ormai.
Le mogli, le sorelle, le figlie accoccolate sui gradini sferruzzavano freneticamente pe dominare un’ansia fatta di presagi e scambiavano opinioni, avevano preparato un brodo caldo e “Sì, questa sera ha promesso di tornare.. e Antonio l’hanno fucilato.. e Andrea per un po’ non tornerà.. troppo pericoloso.. e gli ho mandato a dire che è nata Lucia e pesa 4 chili.. ma i fascisti maledetti li hanno quasi circondati…”
Il vento sapeva solo ascoltare, lento per non disturbare, troppo lento per raccontare la vita dei cieli, troppo pigro per spazzare con un colpo di magia le lacrime, forse troppo indifferente per una carezza.
Qualcuno le disse “Il vento l’ha portata in cielo, la tua mamma, in un posto speciale, tra i partigiani eroi che hanno dato la vita per la libertà”
“Perché? – Ena chiese al vento – Perché?”
C’era una volta Anita, una donna senza paura, buffa, riccioli a cascata, un nervo di volontà, libera nell’approccio alla vita, simpatica nelle risate improvvise. Gli amici partigiani della Val Nure la chiamavano “angelo”, adoravano quel fare senza paura, i gesti frettolosi e ogni sera aspettavano quel cibo prezioso, che Anita aveva racimolato con fatica e la povertà diceva grazie a un pezzo di pane, una patata lessa, un po’ di formaggio. E il vento spazzava le nuvole per restituire un cielo incantato di promesse. Guerra e morte. Ideali e sacrifici. Vita e pericolo. E i canti della Resistenza sussurrati per scambiarsi il coraggio, la carne che chiede amore, i passi sospetti, le attese lancinanti, il freddo di giacigli improvvisati, una grotta per difesa.
“Devo andare” si imponeva Anita ogni sera, e… scarpinare, salire e fermarsi quando il bosco diventava minaccioso e una siepe di lucciole illuminava un sentiero. Non c’era tempo per ascoltare la melodia suonata dal vento tra gli alberi, non c’era tempo per la fantasia. E finalmente una casa, un miraggio soffocato dal verde, all’ombra di una quercia protettiva. Una casa viva di vecchiaia e di abbandono, con il fascino del passato, le mille voci presenti nelle rughe profonde dei muri, i sassi che si sostenevano a fatica l’un l’altro. Gigiotta viveva il tempo con il sorriso: un letto, due sedie, un tavolo zoppo azzurro di legno, tre galline e un galletto a passeggio nella stanza con le margheritine negli angoli dove il terriccio si accumulava senza vergogna. Quel rudere pacificava il cuore, una sosta obbligata per una pausa e un bicchiere d’acqua…e poi rimettersi in cammino, le spalle sfinite, le borse ogni sera più pesanti, ma la sfida è forza.
In una notte senza stelle il bosco inghiottì la sua vita e nessuno scoprì mai chi fosse l’assassino.
Inutilmente Ena chiedeva “Perché”? Le stelle restituivano al mondo la purezza dell’infinito. Il vento sembrava indifferente, ma caldo e quasi suadente, cercava di sedare le ribellioni, le ansie. E nessuno sapeva spiegare quel perché.
Il tempo sbriciolava immagini, emozioni, episodi, pianti, solitudine.
Ena sussurrava a se stessa con pudore sogni e speranze, in quella piazza così grande, il vociare del mercato e l’odore insopportabile del caglio. Zia Elvira era dolce, a volte tenera…ma dove i baci, il gioco, il riso complice di una madre..? E quel cantare liberatorio a squarciagola, le filastrocche, le favole magiche, il rito al Nure per lavare i “panni” sporchi, la merenda di pane e zucchero, le coccinelle lungo quel sentiero, il triangolo di terra con le margherite…La nostalgia diventava pianto.
Allora Ena a quel soffio di vento che prepotente entrava dalla finestra chiese
“Puoi prestarmi una mamma?
La vorrei
per cinque o sei minuti soltanto,
più di tanto non voglio
non voglio neppure che si impegni.
A me basta
che mi insegni
come s’asciuga il pianto”
Sì, il tempo sbriciola le stagioni, l’infanzia e le attese deluse.
“Avevo salutato gli amici folletti del bosco e le avventure rabbiose e dispettose contro i “nemici e, che importa se la guerra era finita, se tutti dicevano “è il momento di emigrare” per molti in Francia, per altri in America…a me bastava Milano dove, si diceva, i partigiani avevano fatto finire quella maledetta guerra. Avevo vent’anni. Era il 1960. La Littorina Bettola-Piacenza svelava la dolcezza di una vallata sorridente con una foschia diffusa e, no, non dovevo avere rimpianti, non dovevo sentire sciogliere l’anima.. e l’orizzonte scandiva le torri dei borghi e sulle mani, ancora, l’umidità dell’erba…Milano mi soffocava di incontri, di strade, di vicoli, di Chiese, di tram, di palazzi: un vortice di vita, quella che non potevo prevedere, quella che calpestava i sorrisi, quella che pulsava convulsa, anche per me. Nella soffitta di venti metri quadri, ero regina e succube, le piastrelle verdi ridevano d’allegria, il vecchio comò diventò un pezzo d’antiquariato, un tavolo giallo dipinto per l’occasione e quattro scatoloni, la libreria improvvisata. Un prete aveva procurato abbaino e lavoro. Per me e con gli occhi lucidi potevo solo dire “Grazie”. Offrire e vendere fiori in quel minuscolo negozio di periferia non mi sembrava neppure fosse un lavoro, ma un dialogo, uno scambio. Forse ero fortunata, ma la città non mi apparteneva.”
Lunghe e struggenti malinconie…Ena comprò una bambola, la vestì risuscitando i personaggi delle fiabe per raccontare, cantare a squarciagola, ridere e quella “figlia” ascoltava in silenzio, docile, incantata.
“Ma io, mi dissi, sono figlia di Anita, la partigiana senza paura, sarò una donna libera, lotterò per i diritti, amerò questa città e la sua gente. Sono pronta”. E i nascenti movimenti femministi la videro protagonista, coinvolta, senza esitazioni.
Il tempo irruppe imperioso in una sera di maggio quando, in un cinemino di periferia, incontrò Giorgio, ricci neri, un vulcano di parole e di idee… e si lasciò trascinare in quel presente d’amore, in un futuro di sogni, in una Milano nuova di vita.
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Nene Ferrandi
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano