Lettera a Messina Denaro pubblicata nel 2015: “Le scrivo per annunciarle la sua morte”

Attualità

Gentile Signor Matteo Messina Denaro,

Le scrivo per annunciarle la sua morte. No, non sono un medico e la morte a cui alludo non è quella fisica. Faccio il giornalista: capire chi comanda e chi invece ha perso il potere fa parte del mio mestiere.
Lei è morto come boss mafioso, come simbolo dell’organizzazione mafiosa. Tutti la chiamano l’invisibile e lei lo è diventato davvero. E non perché chi le dà la caccia non conosca la sua faccia di oggi. Ma perché lei non conta più niente. Il suo corpo che in questo istante respira, si muove o riposa non è più quello di un uomo potente, ma di un ricercato, come ce ne sono tanti, di un braccato. Non è più un cacciatore ma una preda.

Lei per primo qualche anno fa ha ammesso la sconfitta. Volevate piegare lo Stato, essere padroni a casa vostra (qualcuno poi vi ruberà lo slogan) e invece con mezzi più o meno ortodossi, siete stati battuti. Prima la gente faceva la fila in pieno giorno per riverirvi e chiedervi aiuto. Poi ha iniziato a farlo sempre più di nascosto. Troppo rischioso.

A lei hanno arrestato tutta la famiglia, la donna che le ha dato una figlia è andata via da casa, lì dove tutti la onoravano come un dio. Vi siete rivolti agli amici e hanno arrestato pure quelli. La sua latitanza costa decine di migliaia di euro al mese, nessuno fa niente per lei a gratis. Ma sa qual è la sconfitta più grande per uno come lei? Che qualcuno ha fatto carriera sulla vostra pelle. Qualcuno ha capito in tempo che al massimo della vostra forza militare, eravate deboli, debolissimi. Che tutto quel sangue non vi avrebbe portato bene.

Nello stesso momento in cui il mondo si accorgeva di voi, del vostro delirio di onnipotenza, qualcuno iniziava a costruire sapienti parole di cartapesta. Guappi di cartone voi, con le vostre bombe, eroi di cartone loro. Voi con le vostre parole d’onore, loro con i bla bla bla di antimafia e legalità. E mentre voi finivate tutti inguaiati, sbattuti dentro e dimenticati, loro – gli antimafiosi, i buoni – scalavano posizioni su posizioni. Voi finivate all’inferno, loro in paradiso. Ma eravate facce della stessa medaglia, entrambi ipocriti.

Conosco bene la provincia di Trapani, ci vivo. Un tempo ad ogni angolo di paese c’era un ragazzo pronto a impugnare la pistola per farsi largo nella vita, per diventare boss. Adesso non c’è più nessuno. Nessuno invidia la sua carriera, nessuno vorrebbe essere come lei. Chi vuole comandare in Sicilia, a Trapani, non sceglie l’organizzazione: si da alla politica, agli affari. Cosa nostra non è più un trampolino di lancio, è una zavorra. Non avete più appeal, direbbe un pubblicitario.
Se l’organizzazione non fa proseliti, non attira sangue nuovo a cosa serve?
Un tempo la mafia imponeva e controllava qualsiasi opera pubblica o impresa privata. Oggi una ditta qualsiasi arriva a Mazara del Vallo, nel suo mandamento, e per piazzare i pali eolici fa l’elemosina al mafioso locale: 500 euro a palo, una tantum. Non fate più paura a nessuno. Sa quando guadagna un ragazzino del Grande Fratello per ogni comparsata in discoteca? Di più, molto di più.

Un tempo lei uccideva per poco, molto poco. Ricorda quell’albergatore che definì “mafiosetti” lei e i suoi picciuttunazzi che bevevate nel suo locale atteggiandovi a grandi uomini e toccando il culo ad ogni ragazza che passava. Quell’offesa non gliela perdonò e diede ordine di ucciderlo. Mafioso, non mafiosetto, le parole sono importanti per Lei.

Quei colpi di pistola sancirono il passaggio. Con tutti i soldi che ha fatto suo padre, Lei poteva avere ogni cosa senza sporcarsi le mani di sangue. Ho immaginato più volte se invece di cercare l’approvazione di quella banda di assassini di cui suo padre si circondava avesse chiesto di andare via da Castelvetrano, all’estero a studiare. Magari economia visto che le piacciono gli affari e ama girare il mondo. Avrebbe avuto mille privilegi. Ma non le bastava essere Matteo Messina Denaro, godersi la vita anche senza lavorare. Voleva diventare don Matteo: il generale della sua falange, il Cesare di Cosa Nostra. Voleva incutere rispetto, non conquistarselo con qualche talento. Ma se uno come lei non si riproduce e non diventa un mito da imitare non è più nessuno, è morto. E intorno a lei non c’è più nessuno.

Lei è pure diventato un personaggio, con la mania dei ray-ban, la fissa per le belle donne e il lusso. L’incarnazione del boss hollywoodiano, una sorta di Al Pacino con le movenze di John Travolta. E’ finito anche sul Time, nella top ten dei mostri insieme con Bin Laden. Sono soddisfazioni per uno come lei che voleva vivere sempre al massimo.

Come le dicevo, è il mio mestiere saper leggere le cose che cambiano. Sono sicuro che Lei ha visto quel ragazzo di Castelvetrano che va in giro da settimane a vendere il suo brand da antimafioso che si ribella a lei e all’organizzazione. Io so che l’ha visto. E so cosa ha pensato. Che finché lei era don Matteo a quel ragazzo gli affari che lei faceva fare al padre gli convenivano. Gli permettevano di vivere a Roma, di tentare la carriera di attore, di curarsi il look che mostra sempre così raffinato. Ma da quando hanno arrestato il genitore con l’accusa di proteggere la sua latitanza, il babbio è finito. E il pericolo di avere l’intero capitale di famiglia sotto sequestro non è bello, dopo che hai vissuto così bene grazie a don Matteo. E allora si ricicla, facendola apparire come l’unico e assoluto male in una terra dove se non ci fosse Lei tutto sarebbe bellissimo.
E’ questo che mi fa capire che Lei è morto. Perché se un ragazzino che ha vissuto con i soldi che lei ha fatto fare a suo padre la ripudia così, a Castelvetrano, nella sua terra, lei non è più niente.

So che le piacciono tanto le massime latine e gliene consiglio una io che fa al caso: “I benefici sono graditi finché possono essere ricambiati, quando sono troppo grandi, invece di gratitudine generano odio“. Lei ha fatto favori troppo grandi. A tanti politici, a tanti imprenditori. Li ha fatti diventare dei vincenti, li ha protetti e li ha fatti diventare ricchi. Poi lei è diventato ingombrante. Non scrive più, non minaccia, non è più a capo di nessun esercito. E’ solo l’ultimo residuo di un mondo che non c’è più. Il suo nome “tira” ancora, questo è vero. Se si parla di mafia, lei c’è. Se si parla di antimafia, pure. Ma chi le sta dando la caccia lo sa. Lei pensa solo a rimanere più a lungo possibile lontano dalla cella prenotata da tempo per i suoi ultimi anni. Ha abbandonato la sua famiglia ed è stato abbandonato anche da coloro che lei ha reso ricchi.

I giochi, Matteo, sono finiti. E scusa se sono passato al tu, ma ai morituri va fatta sentire la vicinanza dei vivi nel momento del passaggio. Non voglio confortarti, sia chiaro, so che non ti pentiresti mai perché credo che tu non sia pentito di nulla se non di essere stato sconfitto. Ma potresti parlare. Raccontare mille cose: chi ti ha protetto, chi hai aiutato, cosa è davvero la mafia e chi l’ha usata. Certo, rischieresti di non essere creduto. Quante persone “perbene” a cui hai fatto fare fortuna avrebbero buon gioco a negare? Quanti geometri, avvocati, notai, quanti medici, assessori, dirigenti locali e regionali, direttori di banca e imprenditori dopo averti “usato” oggi potrebbero dire davanti alle tue accuse “mi ha minacciato per ottenere qualcosa ma io non volevo”.

Ecco l’eredità che lasci. Una banda di sanguisughe. Che vivranno liberi e faranno magari pure gli antimafiosi e ti sputeranno in faccia pubblicamente. Ecco perché anche tu sai di essere morto. Pensaci Matteo, mentre cambi rifugio dopo rifugio e senti sempre più vicina l’ora della morte targata 41bis. Hai un’occasione, quella di non morire da solo che è sempre una cosa brutta.

Nicola Biondo – Il Riformista

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