Marco Follini e quel “Io sono Biden” del provincialismo italiano

Attualità

Che nessuno si offenda, ma c’è davvero qualcosa di patetico nella rincorsa di Biden a cui tanti dei nostri leader e leaderini in queste ore si stanno dedicando. Chi lo ha incontrato, lo celebra. Chi non lo ha mai visto, lo immagina. E ognuno se lo rappresenta e se lo accomoda come fosse una parte della propria biografia. O magari delle proprie attese. C’è un tratto di infinito provincialismo che trapela nelle confidenze e nelle fantasie di queste ore. Tutti pronti a raccontare di quando hanno sfiorato il presidente americano in un cocktail affollato, in una sfilata di truppe o magari solo nella confortevole nicchia dei propri pensieri. Tutti pronti a reclamare per se stessi la parte della versione italiana del nuovo inquilino della Casa Bianca. “Io sono Biden” sta diventando una corale recitazione, o più prosaicamente un gigantesco “copia e incolla”. Biden sembra servire alla sinistra non troppo estrema per dire che appunto non è il caso di estremizzare. Ai politici attempati per ammonire a loro volta contro gli eccessi del giovanilismo. Ai professionisti del mestiere per insistere che a questa punto l’improvvisazione ha stancato pure lei. E ai cultori dell’Italia first per annotare che in qualche paesino siciliano si può trovare una lontana traccia di un ramo della famiglia presidenziale. Mai l’America appare così “imperiale” come all’indomani della corsa alla Casa Bianca. E mai l’Italia rischia di apparire così provinciale come quando cerca di indossare i panni dei contendenti che in quella corsa si sono appena affermati.

Le cronache del mondo raramente segnalano l’inverso. Non accade quasi mai che negli altri paesi si prenda a modello un protagonista della politica italiana e lo si evochi come oggetto di imitazione. Non è capitato a Berlusconi, che pure ha eccitato fantasie di tutti i tipi. Né alle ultime generazioni populiste. Né, prima, ai protagonisti del cinquantennio democristiano. Nessun leader straniero si è mai messo in posa per proporsi come il Moro o il Craxi o il Berlinguer delle sue parti. E’ il nostro istinto periferico che ci fa sognare di poter essere la versione italica di un corso politico che si afferma altrove. Lasciando svanire l’illusione che anche noi si possa essere un modello per gli altri. Quando sul finire degli anni settanta Zaccagnini si recò in America per incontrare il presidente di allora, Jimmy Carter, pronunciò un discorso che gli aveva scritto un esimio storico dell’epoca. Il discorso diceva più o meno così: l’Italia è un piccolo paese, ma è un grande laboratorio politico. Si volevano rivendicare certi nostri tratti peculiari e perfino alcune anomalie che ne potevano discendere. Era la rappresentazione orgogliosa di un sistema politico che all’estero destava molte perplessità ma che nel paese disponeva ancora di molto consenso. Forse quell’orgoglio di Zaccagnini per l’Italia di allora -democristiana e consociativa- era eccessivo. Finiva per celebrare un’anomalia di cui avremmo dovuto liberarci per tempo. Ma la corsa a vestire i panni del Biden italiano non ci fa certo risalire la china discesa da allora ad oggi.

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