5 Stelle e Comunismo idrico – Con la scusa della sete globale il M5S alza le tasse sull’acqua

Attualità

Il progetto grillino è di cacciare i privati dalle società che gestiscono le forniture per affidare il compito a carrozzoni pubblici. Mantenuti con nuove entrate fiscali. 

Se il reddito di cittadinanza e la costosissima rinazionalizzazione di Alitalia vi sembrano cose da regime socialista, aspettate il prossimo provvedimento grillino. Prevede di cacciare via, dopo averli rimborsati a spese nostre, tutti i privati dal capitale delle oltre duemila società che gestiscono l’acqua pubblica italiana, per affidare il compito a nuovi enti pubblici.

Carrozzoni alimentati tramite la fiscalità generale e liberi dai vincoli di bilancio e dalle «limitazioni di carattere contrattuale od occupazionale» che valgono per ogni amministrazione statale. I loro vertici, in parole povere, non dovranno rendere conto a nessuno se non ai politici che li hanno insediati, di quanta gente assumono e di come usano i soldi dei contribuenti. Le tariffe saranno decise tenendo conto «delle utenze disagiate» (altro regalo agli evasori fiscali, dopo il sussidio di nullafacenza) e il criterio per determinare l’importo non sarà più fissato da un’autorità indipendente, bensì dal ministro dell’Ambiente di turno. Con quale logica, è facile immaginare.

Ciliegina terzomondista all’interno dello stesso disegno di legge, l’istituzione di un fondo per «favorire l’accesso all’acqua potabile da parte di tutti gli abitanti del pianeta», finanziato con due nuovi balzelli a carico delle famiglie italiane: un prelievo fiscale di 1 centesimo di euro per metro cubo di acqua erogata e un altro, dello stesso importo, per ogni bottiglia di minerale messa in commercio.

Testo alla Camera 
Per i Cinque Stelle questa battaglia è «la prima stella del Movimento», dice Luigi Di Maio. Lo confermano i nomi sul ddl depositato a Montecitorio: a quello della prima firmataria Federica Daga, oristanese con diploma di perito aziendale, seguono i nomi di duecento deputati pentastellati, di fatto l’intero gruppo parlamentare. Dopo averlo tenuto fermo in Commissione per mesi, in cerca di un’intesa con la Lega che non è arrivata, hanno deciso che il tempo di aspettare è finito: il loro testo sbarcherà così com’è nell’aula della Camera presieduta dal compagno Roberto Fico, uno dei padri del provvedimento, e lo farà lunedì 27 maggio, il giorno dopo le elezioni europee.

Il problema, pure in questo caso, è il partito di Matteo Salvini. Gli acquedotti del Sud sono il disastro che si può immaginare: il 45% delle acque immesse finisce disperso e il servizio di depurazione riesce a trattare appena il 69% del carico. E nelle regioni meridionali, guarda caso, la gestione prevalente è quella “in economia”, affidata cioè alle stesse amministrazioni locali: interamente pubblica, come vogliono realizzarla i Cinque Stelle in tutta Italia.

Nel settentrione, però, la situazione è assai diversa. Le strutture sono più moderne e le perdite di acqua lungo le condutture di molto inferiori, pari al 26%. E questo anche grazie a società miste pubblico-privato ben gestite e capaci di forti investimenti, come A2a, che sta crescendo e punta a diventare la “multiutility del Nord”, della quale metà del capitale è divisa in quote identiche tra il Comune di Milano e quello di Brescia, che si sono appena spartiti dividendi per 109 milioni di euro; il resto è quotato in Borsa, in mano a piccoli azionisti. E i leghisti, a sentirli, non hanno alcuna intenzione di rovinare un gioiellino simile per accontentare le smanie socialistoidi di Fico. Discorso simile si può fare per tutte le altre società a capitale misto, iniziando da ben, il cui 52% fa capo ai comuni di Torino, Genova, Reggio Emilia e altre città, dalla bolognese Hera e dalla romana Acea, anch’esse nel listino di piazza Affari.

Che accadrebbe a queste spa se il progetto di collettivizzazione grillina andasse a termine? Il disegno di legge prevede che «la gestione e l’erogazione del servizio idrico integrato non possono essere separate e possono essere affidate esclusivamente a enti di diritto pubblico». Tutte le concessioni a terzi, dunque, dovranno decadere entro il 31 dicembre 2020. Le società partecipate dai privati, qualora si occupino anche di fornire elettricità, gas e altri servizi, dovranno scorporare il “ramo acqua” e cederlo a una struttura interamente pubblica, che entro sei mesi dovrà trasformarsi in ente, come saranno tenute a fare le società per azioni il cui capitale è interamente in mano ai comuni.

Gli azionisti, ovviamente, dovranno essere compensati per l’esproprio. La proposta dei Cinque Stelle non quantifica il prezzo, che dipenderà anche dai valori di Borsa, ma a fare i conti hanno provveduto altri. L’istituto Bruno Leoni valuta il costo della chiusura anticipata delle concessioni in una quindicina di miliardi: «Un indennizzo una tantum stimabile nella forchetta 8,7-10,6 miliardi di euro, a cui si aggiungerebbero oltre 3 miliardi di euro per il rimborso del debito finanziario a carico degli enti locali e circa 2 miliardi per i mancati introiti da canoni di concessione». Soldi che pagherebbero gli italiani, tramite aumento delle tariffe, della tassazione generale o del debito pubblico.

Imposte allo studio
A questi costi iniziali si sommerebbero quelli della normale gestione. Il M5S prevede di finanziarla in parte togliendo una somma «non inferiore a 1 miliardo di euro» l’anno al bilancio della Difesa (bersaglio preferito di tutti i compagni pacifisti, e i grillini non fanno eccezione) e prelevando 2 miliardi l’anno dall’altro pozzo di San Patrizio cui si attinge quando non si sa cosa inventarsi: quello delle «risorse derivanti dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale». Il resto arriverebbe da nuove imposte: una «pari a 1 centesimo di euro per ogni bottiglia in polietilene tereftalato (PET) immessa in commercio», un’altra sulla produzione e l’uso di sostanze chimiche inquinanti e infine l’immancabile «aumento dell’importo dell’imposta sulle transazioni finanziarie», utile anche a bastonare quegli infami degli speculatori. Compri Bot, vendi azioni? Finanzierai i kolchoz idrici voluti dai grillini. A tali balzelli bisognerà aggiungere quelli destinati ad alimentare il «Fondo nazionale di solidarietà internazionale» (sic) del quale si è già detto, con cui gli equi e solidali pentastellati si ripromettono di risolvere il problema della siccità nel mondo.

Tutto ciò in nome di una battaglia che vede nel profitto e nell’impresa privata il nemico da abbattere, anche quando si limita e gestire un bene che resta della collettività. L’acqua italiana, infatti, è già di proprietà pubblica e fornita gratis per legge: ciò che paghiamo è il suo trasporto e la manutenzione delle infrastrutture. Persino la gestione di questo servizio è pubblica quasi ovunque. Circa 41 milioni di italiani, pari al 69% della popolazione, ricorda l’istituto Bruno Leoni, ricevono acqua da gestori interamente pubblici, e sono a controllo pubblico pure le società miste pubblico-privato; solo il 5% degli italiani sono serviti da operatori davvero “privati”.

A conti fatti, a seconda delle zone, avremmo o la conferma della gestione pubblica, spesso fallimentare, o carrozzoni manovrati da politici al posto di quelle società partecipate dai privati che oggi tengono sotto controllo gli sprechi e distribuiscono dividendi a enti locali, risparmiatori, fondi d’investimento e fondi pensione. Salterebbe ogni controllo serio sui costi e i contribuenti pagherebbero nuove tasse per consentire a personaggi come Alessandro Di Battista di andare in giro a dire che loro hanno saputo essere più statalisti del Pci. Fanno il deserto e lo chiamano acqua pubblica. Se ci sei, Lega, il 27 maggio batti un colpo.

Fausto Carioti (da Libero, 6 maggio 2019)

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