Milano 12 Agosto – Le aspre polemiche in corso sul ruolo delle ong nel flusso dei profughi dalla Libia ripropongono l’eterno contrasto tra ragioni umanitarie e ragioni non della politica – che sono per definizioni soggettive – ma statuali. Ed è il contrasto permanente che ha impedito all’Italia da 25 anni di dotarsi di una visione organica e di strumenti adeguati di fronte al crescere del flusso di profughi. Ora più di un segno sembra andare finalmente nella direzione opposta. Emerge una consapevolezza e un indirizzo statuale diverso, rispetto al lungo passato denso di errori. Ed è allora il caso di dipanare l’apparente contraddizione tra ragioni umanitarie da una parte, e interessi politici ed economici dello Stato, della Repubblica italiana in quanto tale.
A pensarci bene, le ragioni umanitarie vengono brandite sia dai favorevoli al maxi flusso migratorio, sia dai contrari. Roberto Saviano ha scritto che lui sta con le ong che non firmano gli impegni richiesti dallo Stato Italiano: “né con lo Stato, né con gli scafisti”. Dall’altra parte, una tradizionale posizione di chi vuole lo stop dei profughi è “aiutiamoli a casa loro”. Sono posizioni apparentemente logiche, molto popolari. Ma a ben vedere sono entrambe costruite su presupposti sdrucciolevoli. Quasi irreali.
I salvataggi in mare non possono prescindere dal rispetto delle leggi internazionali del mare. L’Italia ha commesso il grave errore di accettare missioni europee basate sulla mancata ottemperanza alle convenzioni internazionali sul porto di approdo più prossimo alle zone di ricerca e salvataggio che spettano a ciascun Paese. Per questo i profughi sbarcano solo in Italia, tramite i mezzi navali delle ong e delle missioni navali europee. Il nuovo codice di legalità che finalmente l’Italia chiede di sottoscrivere alle ong non è un’abdicazione ai doveri umanitari: è volto a impedire accordi con gli scafisti e violazioni delle nome sui porti di approdo. Dire il contrario significa ciurlare nel manico.
Quanto all’ “aiutiamoli a casa loro”, esaminiamo la realtà. L’Italia nelle graduatorie internazionali era al 2015 dodicesima come entità di donazioni a progetti di cooperazione nei Paesi più poveri, e ventunesima se pesiamo i 4 miliardi di aiuti rispetto al Pil. Sicché tutti coloro che vedono nel motto – usato tradizionalmente da Salvini, ma anche da Renzi nel suo recente libro – un comodo scaricabarile, sembrano vincere a tavolino. E invece no.
Nel mondo reale, gli ultimi due decenni hanno visto fiorire una ricchissima letteratura sui limiti dei tradizionali interventi di aiuto allo sviluppo. Studiosi come Paul Collier, William Easterly e DambisaMoyo hanno dimostrato che una percentuale elevatissima degli aiuti (soprattutto quelli di Stato) finisce nelle sole spese fisse per gestirli, e si ferma agli artigli rapaci di dittatori e burocrati corrotti in Paesi la cui statualità è compromessa da corruzione, scontri etnici, religiosi e terrorismo. Mentre, al contrario, è stata la forza del mercato e della globalizzazione, in soli 20 anni, a determinare per 1,2 miliardi di persone l’uscita dalla categoria degli estremamente indigenti, quelli che sopravvivono con meno di 1,25 dollari al giorno, facendone scendere la percentuale dal 43% al 15% della popolazione mondiale.
Nella vicenda dei profughi che passano per l’unico corridoio italiano nella speranza di passare in Europa la sfida “aiutiamoli a casa loro” non si risolve nella percentuale su Pil che devolviamo agli aiuti di sviluppo. Bensì se l’Italia sia pronta o no ad adottare la lezione squadernata in questi anni, relativa ai Paesi da cui il flusso che sbarca sulle nostre coste si origina, quelli attraverso cui avviene l’esodo, e la Libia da cui i trafficanti di carne umana procedono a indirizzarli nel Mediterraneo.
Dotarsi di una strategia nazionale finalmente organica, dopo 25 anni di fallimenti, significa dunque quattro scelte essenziali. Della prima e della seconda, occorre dare atto al ministro Minnitidi aver proceduto a porre finalmente le basi: ripristino della legalità internazionale e dell’interesse italiano da tutelare nel Mediterraneo secondo il diritto del mare; e interazione diretta con tutti i Comuni italiani per un meccanismo di gestione dei flussi che eviti concentrazioni nei territori che producano tensioni ed esplosioni sociali. Finché non si compirà questa seconda scelta – che chiede tempo – vicende come quella del sindaco Pd di Codigoro sono purtroppo amare, ma comprensibili. I sindaci, nelle località in cui la concertazione di profughi eccede proporzioni ragionevoli, si trovano da incudine e martello: l’incudine dei prefetti costretti dall’alto ad allocarli dove trovano sistemazioni, e le proteste dal basso delle comunità per l’eccessiva concentrazione.
Ma servono anche una terza e una quarta scelta. Occorre prendere atto che nei Paesi a statualità assente o compromessa, come la Libia ma non solo, non le vecchie potenze imperialiste del Sei-Novecento, ma i grandi Paesi democratici delle attuali entità politico-militari sovranazionali mondiali, tutelano il diritto internazionale e interessi nazionali anche attraverso l’uso di dispositivi militari. C’è chi come la Francia ha forze militari a terra e in aria nell’Africa centro occidentale, chi come la Germania assicura forniture militari a regimi terzi per influenzarne le politiche regionali (così è accaduto a lungo con la Turchia, prima del recentissimo raffreddamento delle relazioni). L’Italia politica deve vincere la convinzione, molto diffusa ancora, che l’articolo 11 della Costituzione ci impedisca di fare altrettanto: stiamo parlando di farlo energicamente ma nella cornice Ue-Nato, non di interventi unilaterali di potenza spesso praticati in passato dagli Usa, e tornati a essere la via seguita dalla Russia di Putin.
La quarta scelta è quella dell’interesse economico dell’Italia. Non conta il mandato post coloniale italiano in Libia. Deve pesare il fatto che la nostra presenza attraverso Eni è la maggiore del mondo avanzato in quel Paese. Per questo eravamo gli unici ad aver riaperto l’ambasciata in Libia. Per questo da anni i nostri servizi di intelligence “sfamano” l’intera comunità occidentale che lavora riservatamente per i propri governi. Per questo siamo l’unica nazione ad aver riunito a Roma 60 tra capi milizie e tribù di tutta la Libia, poche settimane fa (e ancora una volta: grazie a Minniti e all’Aise) ). Ed è per questo, come avvenne nel 2011, che talora siamo stati messi brutalmente nell’angolo da iniziative altrui: da parte della Francia di Sakozy, nella fattispecie.
Queste quattro scelte per una strategia organica sono l’esatto opposto di una scelta anti-umanitaria. Significa cercare di andare al nocciolo del flusso di profughi attraverso l’unico corridoio rimato aperto per l’Europa. Questo devono fare gli Stati, non tenere gli occhi chiusi.
Oscar Giannino (L’Intraprendente)
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