Repubblica gufa contro Berlusconi

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Milano 12 Giugno – C’è di peggio, della pornografia origliante che Repubblica ha fatto sulle sue serate private. C’è la pornografia luttuosa che ci ha squadernato oggi, in assenza del lutto, sotto forma di auspicio neanche tanto inconfessato. Non è il caso, qui, di scomodare la categoria dell’odio, a suo modo grandiosa e fin nobile. Piuttosto, quello che il Quotidiano-Partito ha covato per vent’anni nei confronti di Berlusconi era risentimento, complesso d’inferiorità, una sensazione da impotenti e da “introflessi”, avrebbe detto Nietzsche, che è esplosa oggi sotto forma di coccodrilli appena mascherati, e palesemente fuori luogo, che nell’ipocrisia giornalistica sono stati venduti come commenti al ricovero e al problema di salute assai serio del Cavaliere (sostituzione della valvola aortica).

Hanno schierato le firme migliori, come fama e curriculum anti-berlusconiano, per questo plotone d’esecuzione anticipato: Francesco Merlo, Filippo Ceccarelli, Marco Belpoliti. Titoli come “Dalla discesa in campo allo stop del chirurgo”, “E il corpo reale chiede il conto al corpo mediatico”, su su nella gara delle piccinerie umane (?) fino a “Dei suoi vent’anni non rimane niente”. Più che un pezzo, una gittata di bile a lungo compressa da un Francesco Merlo che esordisce con “non ha eredi quel fragile gradasso che più di vent’anni fa inaspettatamente entrò in scena cantando My Way”. Non l’avete ancora digerita, malmostosi intellò convinti che il mondo sia contenuto nella vostra penna, quell’entrata in scena così anti-intellettuale, così ribalda, così aperta nel senso della società “aperta” di Popper, di cui voi eravate e sarete sempre acerrimi nemici, epigoni tristanzuoli di quel marxismo annacquato col moralismo provinciale e beghino che è sempre stato il succo dell’ideologia italiana. Non faceva per voi, cattivi maestri del rancore, quella sparigliata tutta ottimista e parecchio incosciente con cui il Cav ribaltò per sempre l’agone politico nostrano, non lo avete ancora capito adesso, a distanza di ventidue anni, il discorso della discesa in campo, turba ancora le vostre notti e svuota ancora le vostre analisi, le stesse che allora lo profetizzavano “costretto a chiedere l’elemosina” dopo pochi mesi. Va bene, ognuno ha i suoi fantasmi, ma scrivere come fa Merlo che il problema al cuore dell’Arcinemico è “la prova della delicatezza dello spavaldo, la fine dell’estetica da Sanbitèr, la trasformazione del bunga bunga da ritmo sgarzolino in cupa aritmia” è molto peggio che un cattivo esercizio giornalistico (i giornali non sono nulla, vi svelo un segreto, cari sacerdoti della casta declinante degli opinionisti, sono un inciampo non necessario nel corso della giornata, dunque nella vita), è miseria esistenziale. Ma sgomberate la mente e la pagina dai sociologismi vanitosi almeno ora, dannazione, almeno di fronte alla salute e al rischio supremo, la vita, che a detta dei medici Berlusconi ha corso, vergognatevi, almeno un po’, di aver tirato in ballo l’estetica del bunga bunga di fronte a un letto d’ospedale, ammettete, almeno con voi stessi, la povertà di una vita professionale vissuta in antitesi, di rimando, soggiogati da quella forma adolescenziale dell’innamoramento che è la stroncatura continua.

Niente, non riescono a depurare il linguaggio nemmeno in questo caso, gli ammaestratori di quel fenomeno d’intruppamento di massa che è stato l’antiberlusconismo, e allora Filippo Ceccarelli può lasciarsi andare, e mettere nero su bianco che “consumatosi nei wild parties, nelle feste selvagge ad Arcore, a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa, il suo ciclo di potere era già finito nell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone”. La sentite, quell’invidia disperata per i “wild parties” e le “feste selvagge” (aggettivo che non qualifica nulla, ovviamente, ma dipinge e discredita, che è sempre stata la specialità della casa) che in altri tempi ideologici si sarebbe chiamata odio contro il nemico di classe? Perché è un nemico di classe, Silvio, per questa gente, per la classe dei commentatori impettiti e degli intellettuali autoproclamati e dei salottieri mediamente arricchiti dei salottimediamente ricchi del Paese, la minoranza azionist-scalfariana che non ha mai rinunciato a quello che era anzitutto un vezzo sociale, eterodirigere la maggioranza. Probabilmente per la prima volta nella storia repubblicana, il Cav ha provato a dare voce e corpo, ben prima che rappresentanza politica, a quella maggioranza silenziosa di autonomi esclusi dal salotto, di piccoli imprenditori, artigiani, commercianti, partite Iva, non garantiti a vario titolo ed eterni spremuti dal Leviatano del quale gli intellò di Rep sono da sempre gli aedi e la maestranza culturale (“cani da guardia del potere”, sì, nel significato opposto a quello originario e anglosassone).

Per questo, non lo sopportano, e non si contengono, nemmeno di fronte al cuore che fa fatica a pompare e a un’operazione in circolazione extra-corporea, anzi è l’occasione per sfogare i rimossi e liberare gli istinti, per certificare che “dei suoi vent’anni non rimane niente”, un coccodrillo antipatizzante e prematuro che rimarrà come il capitolo peggiore di una lunga storia di pestaggio mediatico. Di fronte al loro fallimento ideale e assoluto, il fallimento politico relativo del Cav non è nulla, un incidente di percorso in una parabola che si è manifestata tutta fuori dal recinto soffocante dei loro dogmi e delle loro scomuniche, e che ci fa dire, ancora: ti aspettiamo.

Giovanni Sallusti (L’Intraprendente)

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