Il corpo della donna ebrea

Esteri Società

Il 7 ottobre hanno stuprato, bruciato, ucciso. Non solo corpi: identità. E voi, femministe, eravate altrove.

Di fronte al corpo devastato della donna, la sinistra ha sempre saputo indignarsi. Sui manifesti, nei cortei, nei seminari universitari, il corpo femminile violato è stato per decenni il simbolo universale dell’oppressione patriarcale. Ma solo se quel corpo era quello giusto. Palestinese, afrodiscendente, migrante. Giustamente, certo. Ma anche esclusivamente.

Il 7 ottobre 2023, decine di donne ebree sono state stuprate, torturate, esposte come trofei.
Alcune erano vive mentre le bruciavano. Alcune erano incinte. Alcune erano bambine.

Eppure il femminismo mondiale ha guardato altrove.

Le stesse accademiche che scrivono saggi sulla violenza sistemica e sul potere dei corpi oppressi hanno scrollato le spalle. Le stesse attiviste che parlano di cultura dello stupro hanno detto che “non ci sono prove certe”. Le stesse femministe che giurano solidarietà alle vittime hanno chiesto da che parte stai, prima di decidere se crederci.

È successo qualcosa quel giorno, qualcosa che non riguarda solo Israele. Qualcosa che ha a che fare con l’identità, la selettività della solidarietà, la vergogna dell’essere ebree in un mondo che tollera solo a certe condizioni.

La donna ebrea è scomoda. Non ha lo status di vittima pura. Porta con sé la storia d’Israele, l’ambiguità di una nazione attaccata e armata, il sospetto d’essere complice, bianca, privilegiata. Anche quando viene sgozzata in un kibbutz. Anche quando è una ragazza che balla a un festival. Anche quando diventa solo un corpo spezzato.

La donna ebrea non ha il diritto di essere corpo. Deve sempre giustificare la sua umanità.

Per questo, quando è violata, il mondo progressista alza le spalle. Troppo complicato. Troppo sionista. Troppo bianca.
Ma la violenza sessuale non è complicata. È brutale. È chiara. È patriarcale. Anche quando la subisce una donna ebrea. Soprattutto allora, se davvero crediamo a ciò che diciamo.

Le prime a dubitare delle testimonianze sulle violenze del 7 ottobre non sono state le destre reazionarie, ma le compagne, le alleate, le accademiche “intersezionali”. Quelle che ci avevano insegnato che “le donne non mentono mai”. Quelle che ci avevano detto che “lo stupro non ha giustificazioni politiche”.

Ma poi il corpo era quello sbagliato.
E allora la narrazione è cambiata. Si è detto che forse erano soldatesse, forse non erano donne, forse era propaganda.
Perché? Perché erano ebree.

Il dolore del 7 ottobre non è solo nei numeri, nelle immagini, nei racconti di chi è sopravvissuto. È nel silenzio che lo ha seguito. Nel vuoto delle piazze femministe. Nelle risate nervose delle assemblee. Nelle mail delle colleghe che smettono di rispondere.
Nel sentirsi improvvisamente invisibili proprio tra chi doveva essere più vicino.

Le donne ebree sono cresciute con la memoria del trauma. Lo hanno interiorizzato, trasmesso, inscritto nei loro corpi e nelle loro genealogie. Ma questa volta il trauma è anche politico, collettivo. È il trauma di essere escluse proprio nel momento in cui la carne bruciava.

Non esiste sorellanza se per appartenere devi scusarti per chi sei.
Se per meritare empatia devi prima prendere posizione contro il tuo popolo.
Se il tuo corpo violato è accettabile solo come danno collaterale.

La verità è che per molte donne ebree oggi il femminismo non è più un luogo sicuro.
Non lo è se per essere credute devi diventare invisibile.
Non lo è se le morti devono essere contestualizzate.
Non lo è se il dolore è un fastidio politico. Il corpo della donna ebrea oggi è un campo di battaglia simbolico. È lì che si gioca la coerenza di chi si dice femminista.
Perché se davvero crediamo che ogni violenza sessuale è intollerabile, allora non può esistere un’eccezione geopolitica alla solidarietà.

E se invece crediamo che ci siano corpi degni di empatia e corpi che non lo sono, allora non stiamo combattendo il patriarcato. Lo stiamo solo amministrando.

Post Fb di Roberto D’Amico

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Moderazione dei commenti attiva. Il tuo commento non apparirà immediatamente.

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.