Le manifestazioni di queste ore segnano un cambio radicale di atteggiamento di ampie fasce della popolazione verso i divieti del Governo.
È possibile che alcuni clan criminali e organizzazioni estremiste si stiano approfittando della piazza, ma è indubbio che la stragrande maggioranza dei manifestanti reclami il pane. Sì, il pane, insieme alla libertà di produrlo!
Non è retorica, la mia, non sono avvezzo a queste pratiche. È la fotografia dell’Italia reale, di migliaia di imprenditori, professionisti, artisti, lavoratori dipendenti e disoccupati piagati dai riflessi economici della pandemia e disorientati dall’approssimazione del Governo sia sul fronte sanitario, sia su quello economico.
Preciso subito. Sul versante sanitario, i buchi neri più evidenti sono due ed entrambi fanno ribollire il sangue tanto sono ingiustificabili. Per prima cosa, l’incapacità di coordinare “centro” e “periferie” – coordinamento che spetta giocoforza al governo con riguardo alle regioni, ma anche ai comuni – ha frenato interventi di ampliamento degli organici del personale medico, paramedico o tecnico, il rafforzamento dei presidi, degli ospedali o delle residenze sanitarie assistenziali. Così come ha impedito il potenziamento delle reti e dei mezzi di trasporto; degli addetti al controllo del territorio; degli strumenti di tracciamento, prevenzione e cura domiciliare.
Interventi, tutti questi, che avrebbero consentito di affrontare la seconda ondata virale in maniera più adeguata, preparare i territori alle nuove emergenze ed evitare, così, nuovi blocchi del commercio e terziario, della scuola e università.
Il secondo buco nero si riferisce ai finanziamenti. Avere rifiutato il fondo europeo per la sanità è stato un errore gravissimo perché ha impedito a Stato e Regioni di poter spendere, proprio per la sanità, fino a 37 miliardi. Soldi che sarebbero stati disponibili sul conto corrente del Tesoro in sole tre settimane dalla richiesta, senza ulteriori condizioni.
Sul fronte economico e sul piano della gestione delle risorse, poi, gli errori fin qui compiuti sono molti, ma ve n’è uno che più di altri testimonia la scarsa capacità di guida e progettazione: l’assenza di piani strutturali di riforma e di investimento immediatamente cantierabili in infrastrutture, ricerca, tecnologie avanzate, produttività e riconversione industriale, energia, politiche attive del lavoro, e l’assenza di progetti strutturali di revisione del fisco e della spesa pubblica improduttiva.
L’incoerenza dei divieti imposti con l’ultimo decreto del Presidente Giuseppe Conte, infine, completa l’opera, come fosse una ciliegina sulla torta. Ammesso che quei divieti fossero davvero necessari, perché far chiudere i teatri o i cinema e non i musei? Oppure i ristoranti e i bar, e non i parrucchieri o i centri commerciali? Per quale motivo non sono state riviste le regole sui trasporti pubblici, ma si sono sprangate palestre e piscine?
Le rivolte sono come l’acqua che trabocca dal vaso: arrivano sempre alla fine di un lungo gocciolamento. Nascono non per una, ma per molte ragioni che si sommano l’un l’altra, fino all’ultima.
E siccome “la rivolta è in fondo il linguaggio di chi non viene ascoltato”, come diceva Martin Luther King, condizione non negoziabile per il Governo è dare risposte adeguate per mantenere la pace sociale e aprire il Paese alla speranza. Oppure, se a questo incapace, è accettare la verità che “uno non vale uno” e trarne le conclusioni migliori. Seriamente.
Post Alessandro Giovannini Docente ordinario di Diritto tributario Università di Siena
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845