Milano 11 Novembre – Ma che cosa è cambiato, dopo che tutto è crollato? Direi non molto. Le Marche hanno un anno di più e qualcosa meno: la speranza. Perché le cose non vanno. Non si muovono. Non cambia niente, e siamo al secondo inverno. L’anno dopo del terremoto è un anno zero. Il presidente del Consiglio Gentiloni è appena stato a Camerino, all’università, a fare professione di impotenza, ad ammettere quello che da queste parti tutti sanno e tutti dicono, mormorando, imprecando: che non si è fatto ancora abbastanza, per non dire niente, che le cose dovranno cambiare, per non dire che non cambieranno, che si trascineranno ancora e ancora.
ABBANDONI A RIPETIZIONE. C’è sempre qualcosa. C’è Renzi, al tempo premier, che perde il referendum elettorale e molla. Bisogna sostituirlo. Ci sono le crisi interne alle sinistra di governo terremotata, ci sono i pezzi da sostituire. Il capo della Ricostruzione, Vasco Errani, l’ultima volta che è stato nelle Marche ha detto: «Non vi lasceremo soli». Dopo un giorno se n’è andato, attratto da sirene elettorali. Il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, il mite, ha detto: «Non vi abbandoneremo». Dopo poche ore ha lasciato, «Io non ce la faccio più», e dicevano che aveva capito la disfatta. È arrivata al suo posto Paola De Micheli. «Sì, si vede che ascolta, che vuole rendersi conto», dicono quelli che l’hanno incontrata. «Però si vede anche che non sa niente, che nessuno le ha detto niente, non è informata, anche lei deve ricominciare da capo, è tutto un gioco dell’oca e intanto arriva l’inverno».
SOLO IL 12% DEI MODULI È IN FUNZIONE. E intanto il tempo se ne va. Altro tempo viene, piove la neve, la prima neve bianca e maledetta. Di moduli abitativi, è rimasta la barzelletta: il 15% quelli consegnati. Ma c’è chi corregge: quelli davvero in funzione non arrivano al 12%. Robaccia, oltretutto, ci ha spiegato un tecnico delle costruzioni (veneto, non marchigiano), lamine rivestite con un velo di legno che serve a niente, in pratica la versione peggiorata dei container del ’97. Light, ecosostenibili, d’accordo, ma non sostenibili per chi ci sta dentro: «Io, a me questi ecosostenibili mi hanno rotto i coglioni». Un’ottantina i cantieri aperti per 1560 Sae, soluzioni abitative d’emergenza; ne hanno consegnate, finora, 260 e non c’è cantiere che non sia in ritardo, che non annaspi. La catena delle responsabilità risale su per li rami di consorzi, dipartimenti, enti, dicasteri, presidenze e qui ridiscende nelle visite-placebo, una volta Gentiloni, una Boldrini, una Mattarella: poi ricominciano, a giro, Ussita, Visso, Camerino, Arquata.
E sempre più sono quelli che vorrebbero fare come la vecchia Giuseppina, sfrattata dalla sua casetta di legno a 95 anni. Ma le cose non stavano proprio come dicevano i media. Stavano che, secondo quelli del vincolo paesaggistico chiamati a far la parte dei Cerberi, i parenti erano ben stati avvertiti, pregati, ma han voluto tirar su lo stesso una struttura con tanto di scala di passaggio e a quel punto lo sfratto è stato inevitabile, altrimenti Fiastra diventava come Ischia, un capolavoro dell’abusivismo diffuso.
LE DISINVOLTURE DEI PRIVATI. Per dire che alle magagne di Stato, ai suoi disservizi, si uniscono inevitabilmente le disinvolture dei privati, a volte di conseguenza, a volte preesistenti. In molti centri colpiti, non partono i lavori della ricostruzione, le case restano lesionate: scandalo!, Vergogna! Poi vai a vedere e scopri che i lavori non possono partire anche perché il 99,9% delle abitazioni risulta non in regola col catasto, cioè hanno fatto tutti come gli pareva, aumm aumm, e il sisma ha svelato le opere interne abusive con la conseguenza che non si può procedere ai lavori prima di una riarmonizzazione delle mappe catastali, caso per caso o, come auspicano in tanti, con un bel condono globale totale. Altra storia, quella delle ripopolazioni: alcuni centri hanno ottenuto permessi e fondi per edificare, cioè rimettere a norma interi complessi abitativi: ma la gente non vuole entrarci, preferiscono restare sfollati incassando 1400 euro al mese e versandone tre o 400 in affitto. Con il che, ancora una volta, le opere languono.
GLI SCIACALLI DEI CHECK UP. No, non è tutto come sembra, e quel che sembra è peggio di come è. Il terremoto sfarina anche le solidarietà, checché se ne dica, esalta la vocazione nazionale all’arrangiarsi in ordine sparso, il vecchio vizio nazionale del particulare, del popolo di furbi che fa un Paese di coglioni. Come quelli che, profittando di esenzioni generali, colgono l’occasione per farsi check up familiari, analisi mediche rinviate per decenni, ma che adesso non costano niente, anche se di lesionato non hanno avuto nemmeno una abat-jour. I danni li pagheremo cari, li pagheremo tutti e anche per questo il Moloc statale ha annunciato il pagamento dei tributi arretrati per i terremotati.
Burocrazia, false promesse, imperizia: i moduli «fanno schifo», non sanno montarli, non sanno allacciarli alle fonti energetiche. In certi borghi sorgono orrende cittadelle di legno e cemento rimaste a metà: hanno buttato giù le incompiute invecchiate, ma non riescono a sostituirle con i villaggi del terremoto. «Ce la farete per Natale?». «Chissà, speriamo». Ma la faccia dice il contrario, ma quando mai, ma come ci pensi. E c’è chi ammette: «Era meglio aspettare ma non farli venire, non farli installare ‘sti casotti di legno che nessuno vuole e nessuno sa far funzionare».
LA MALATTIA DELL’ESILIO. E i vecchi muoiono e nessuno lo sa. Ogni tanto si viene a sapere di uno che non ce l’ha fatta e si è spento lontano, il cuore spaccato da una malattia chiamata esilio. Di sfollati nelle Marche ce ne sono circa 31 mila, sparpagliati come l’anno passato 29 mila, negli alberghi costieri i rimanenti: vanno e vengono, come le nuvole di De André, con l’estate li mandan via, coi primi rigori novembrini se li riprendono. È vita, questa?
UNA ETERNA SCADENZA. E le ricostruzioni non partono. Tutto fermo, sine die. Teatri, collegiate, chiese: le costruzioni d’arte saranno le ultime, beate loro, ma sulle prime, le case, le abitazioni, le strutture residenziali, quando cominciano a lavorarci? Gentiloni va all’università, a Camerino, a dire: «Dobbiamo fare di più» (dopo che Boldrini aveva appena ammesso: i problemi ci stanno, inutile negarlo), ma neanche lui è in grado di fornire una scadenza, un programma, nessuno si sbilancia più anche perché chi comanda è lui stesso è a scadenza e lo sa: se ne riparlerà con chi comanderà a giugno, e sarà ancora un ricominciare da zero, nuove facce, nuove lottizzazioni, nuovi consorsi incaricati, nuovi soldi che girano, che si perdono. È vita, questa?
Ci sono amministratori locali di buona, ottima volontà, che per un anno sono stati comprensivi, possibilisti: non è neanche colpa del governo, ci sono un sacco di emergenze, non è facile far ripartire tre o quattro regioni, diamogli fiducia. Adesso hanno un anno di più e al cronista, sottovoce anche se non li sente nessuno, sibilano, ringhiano: «La verità? Vuoi la verità? La verità è che non hanno fatto un cazzo e non faranno mai un cazzo!». Intanto è mercoledì sera e siamo qui, nell’ostello sanginesino che ha già salvato 300 persone dal morire di freddo un anno fa, e che ha ricominciato a svolgere la sua funzione. Si fa festa, si cena insieme, tutti quelli che hanno cooperato per non morire. Coraggio, che c’è da mentirsi, da brindare, da sperare. I borghi marchigiani sanno che nessuno se li fila, che l’attenzione viene costantemente dirottata sulle Norcia, sulle Amatrice, per storia, morti, simboli mistici e per l’abilità mediatica di qualche sindaco che trova modo di spendersi perfino sui tifosi della curva laziale che «nun se toccano», chi se ne frega di Anna Frank.
AGGRAPPARSI ALLA MUSICA. Qui, no. Qui la gente è meno spregiudicata, meno avvezza alle manfrine mediatiche. E poi questi sono sputi nel marasma di un terremoto, a volte mirabili, comunque dissestati, e sanno di doversela cavare da soli, e sanno che non ce la faranno mai. Le Marche sono una regione piccola, poco significante, piena di difetti, ma che a volte induce tenerezza in quel suo disperato doversi sempre legittimare senza scampo. E allora si è capito che l’unica cosa, per non morire, per fingere di esistere, era affidarsi allo spettacolo, alla musica «con un piccolo aiuto dai nostri amici». Così il RisorgiMarche di Neri Marcorè, che ha portato i grossi calibri, così i tanti eventi più o meno piccoli sparsi per le vallate, le varie #ancheiosonosanginesio e #primachefacciafreddo che hanno concentrato rispettivamente prima 35 artisti al parco, poi altri 8 in un tendone della Protezione Civile dove di solito si dice Messa. Trasformato nella capanna di Betlemme, e ci hanno suonato e fatto festa a centinaia. Cosa non ci s’inventa per non morire, come il circuito Sibillini Live, che ha visto anche il concerto di Ginevra di Marco a San Severino e, il prossimo 15 novembre, di Teresa de Sio proprio a Camerino.
ALL’OMBRA DEI SIBILLINI. Gli artisti vengono, suonano, ci mettono il cuore, ma poi vanno via e qui restano le macerie accatastate, anche di speranze, restano le ragnatele d’impalcature, le chiese “messe in sicurezza” che vuol dire in coma strutturale, i villaggi di legno mai finiti. Resta il gelo della montagna, che sibila e copre. «Bisogna fare di più», dice Gentiloni. Arriva un altro inverno e ghiaccia un altro pezzo di vogl’e turnà. Li guardi, i Sibillini, e senti il brivido dell’ignoto e della paura e pensi che questi posti sono condannati, che lo spopolamento è irreversibile, che nessuno tornerà più, fin che un giorno anche i pochi che non si sono arresi moriranno e solo il vento spazzerà il silenzio di un rintocco di campana che suona per nessuno. Massimo Del Papa. (Lettera 43).
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