Chi può dire che cosa è la poesia? Chi può dare un colore alla libertà? Chi può resistere a quella voce che sente l’infinito, sussurra, si dibatte, grida schiava delle circostanze, della miseria umana, ma imperiosa nel mistero di un’emozione, di una visione? Una voce solitaria, a volte indistinta, a volte illuminata, sempre con le ali per poter volare. E pare bizzarro che Riccardo, ormai centenario, scolpito dalla fatica di operaio per quarant’anni alla Breda, mi sveli improvvisamente il suo segreto.

“Prima della seconda guerra mondiale, qui, alla Bicocca, intorno al caseggiato di via Ponale 66, c’erano molti orti che gli abitanti della zona coltivavano per avere frutta e verdura ogni giorno, quando i soldi non bastavano mai. Qualcuno allevava conigli e galline e risolveva così il problema del cibo quotidiano. Gli orti rappresentavano, allora, le sedi naturali per fare due chiacchiere, riposarsi dopo il lavoro, scambiar opinioni e speranze. I bambini giocavano in libertà, le risate attraversavano il tempo come un vento di allegria. E, nelle serate estive, sbocciavano gli amori come sbocciano i fiori. Con il colore dei sogni, a vent’anni.
“L’alter dì a sunt pasà davanti a quand seri un giovinet, me sunt fermà, e per un mument a mè parù de turnà indrè nel temp. Ho vist l’ort del me papà… E ho rivisto l’olmo, là, al limitare dell’orto. Un olmo grande, gigantesco per me, bambino: il mio Paradiso. Appesa ad un ramo, una corda era il volo della mia fantasia. E sfioravo il cielo su quell’altalena.
E la libertà era il vento. Il sogno il profumo dell’aria. Il dondolio la culla dei miei desideri più segreti. Un olmo fiorito, a primavera, era Van Gogh e Matisse e Cezanne e l’intero mondo di colori che volevo amare. La libertà era il vento della vita. Sarà sta una vision, o forse la pasiun, ma in chel mument, dai occ, vegniven giò i gutun e ho sentito quella voce che ho cercato di non ascoltare…” abbassa lo sguardo, mostra un quaderno con timidezza… “e ho scritto una poesia.”
C’era un olmo, là al limitare dell’orto,
un ciuffo verde gigante che sfiorava il cielo
E un’altalena felice aggrappata a un ramo
Su e giù e ancora su, portata dal vento
Nel volo dei sogni e della fantasia
La magia della libertà, dei desideri d’amore, di un bacio rubato
La vita aveva i colori dei fiori,
cantava con un sussurro la speranza”
In quell’angolo di un bar affollato, le voci si annullano nel mistero di un silenzio di attesa. Mi chiedo perché a me? Fiducia, attenzione, partecipazione umana? Quell’uomo ossuto, spigoloso, a volte burbero e sbrigativo, sa ascoltare la voce dell’anima ed è un miracolo commovente. Ma vuole spiegarmi ancora.
“Sono stato e sono Socialista come Sandro Pertini, il più grande partigiano della Storia. Durante la guerra lavoravo alla Breda di Sesto San Giovanni ed ero un partigiano all’interno del contesto della Resistenza in fabbrica, aderendo a scioperi e altre attività. Mai dimenticherò quel 25 aprile 1945. Sandro Pertini annunciò alla radio “Milano Libera” con voce ferma: “
Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”.
E ci fu la rivolta popolare con il sostegno dei partigiani. Ricordo che la tipografia del Corriere della Sera fu usata per stampare i primi fogli che annunciavano la vittoria. La sera del 25 aprile Benito Mussolini abbandonò Milano per scappare verso Como. Libertà, mi dicevo e ripetevo Libertà quasi una magia. E quella voce, dentro nel profondo dell’anima, finalmente scioglieva una gabbia dura a morire.
Io c’ero, Sandro, ero là
Libertà, Libertà cantava la fabbrica intera,
l’acciaio immobile brillava sospeso dal dubbio
operai, contadini, artigiani nelle strade ancora rosse di martiri
un popolo complice e fiero rideva, correva, si abbracciava
Libertà dal fascismo opprimente,
dai pensieri ingabbiati
dalla tristezza di giorni senza speranza.
E tornavo bambino
Leggero come il vento
Felice come i fiori a primavera
“Dopo la guerra, alla Breda, avevamo bisogno di lavorare e sapevamo che il lavoro va fatto bene. Ero riuscito, alla Breda, sia pure con fatica, a farlo capire a tutti, più o meno giovani, arrivati da poco o da tanto tempo: non si doveva guardare l’orologio e smettere di lavorare quando uno aveva fatto le sue ore, ma allora si doveva lavorare in gruppo, stare attenti alla colata, riposare a turno solo quando si poteva, per aiutare gli altri.
E se il lavoro era ben fatto la colata non veniva ritardata, il forno non perdeva tempo a vantaggio di tutti. Era difficile farsi capire, ma con l’esempio e con la pazienza anche i ragazzi più nuovi si abituavano a collaborare con spirito di solidarietà. I ragazzi erano reclutati un po’ per strada, fuori dai cancelli. Molti venivano dal sud, con una piccola borsa e li facevano dormire nello “scapolaio”, un dormitorio per quelli non sposati. Sì, la solidarietà stava nelle azioni, nei sentimenti. Nel lavoro l’integrazione si chiamava amicizia, nord e sud, giovani e meno giovani e ci si aiutava da uomini tra uomini liberi”.
Una lezione civile che attraversa il tempo, le generazioni per approdare a un futuro ideale, da conquistare.
Nene Ferrandi

Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano