La dignità di un clochard a Milano

Le storie di Nene Milano

Quella mano tesa con pudore pensava “Ma come è difficile dire “Io ti offro la povertà che vedi in cambio di un attimo d’attenzione, un sospiro di partecipazione”.

Quella mano immobile nel gesto, gridava gli occhi ruvidi di rimpianti, un’anima ingabbiata da ricordi antichi di un uomo volutamente senza nome, senza patria.

Non c’è luce nella fatica estrema di vivere, nella vergogna di passi in fuga… e poi aspettare il tempo, uguale a se stesso ogni giorno… un cane randagio che chiede cibo, la morte all’orizzonte… dove? Forse su quella strada che ride di negozi, forse fulminato da un sole senza pietà in una piazzetta anonima e deserta, forse sulla panchina, la sua  panchina a volte dolce, a volte imbronciata, là al Parco Nord di Milano.

Quella mano un tempo sapeva aprirsi come un fiore ed era facile offrire un cuore. Con la pazzia della neve, con la melodia della primavera, con la luce dell’estate, con la malinconia dell’autunno… e cantare il futuro con un abbraccio  intenso e infinito  come il mistero.

Mario custodiva la sua anima graffiata dal dolore con una coperta di silenzio, dove ancora danzavano i gesti di Emanuela, le voci esaltate di un cortile trionfante di giochi, il viso bonario di un tiglio e quello scampolo di cielo alla finestra che parlava del tempo, delle stagioni e degli anni, tanti anni, forse trenta con l’amore ripetuto  ogni giorno.

“Ho percorso passo dopo passo, contemplando strade, alberi, angoli selvaggi, tutti i parchi di Milano nell’illusione che un luogo potesse pacificare la tempesta della mia anima. Mi sentivo un rifiuto, un involucro di stracci, un essere che ispira anche insofferenza e disprezzo. “Ma io sono un uomo?”, mi chiedevo. Eppure sono stato un negoziante con la parlantina sciolta, clienti affezionati, qualche battuta per una risata, in quella merceria in periferia. Era bello… ogni mattina era l’alba delle promesse, delle sorprese. Quando mia moglie morì il tempo si è fermato, il commercio paralizzato e i debiti mi soffocarono… dichiarai il fallimento… e quella casa profumata di desideri, di complicità, così ordinata e pulita, venne sequestrata. Ho sputato rabbia, impotenza, ma no… non sarei diventato un viandante con la bottiglia di vino in mano, calpestando dignità e orgoglio “Oggi, mi dicevo, la vita è così, ma forse…” e un lampo di speranza squarciava il buio. E vorrei spiegare ai manichini che corrono con frenesia, a chi si rifiuta di ascoltare, a chi cambia marciapiede per evitarti, a chi non sa che esiste un cuore

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no. (Primo Levi)”

Siede su una panchina sbiadita, un albero protettivo veglia le ore di un giorno lungo di pensieri ossessivi, l’odore inconfondibile della miseria, carta straccia accatastata per la notte, una vecchia rivista di motori pescata chissà dove in mano, in un ritaglio di prato lontano da un viottolo sassoso. Ha un sobbalzo improvviso, quando le campane della Chiesa vicina ricordano che sono le sette di sera e un’agitazione incontrollata, un sorriso largo quasi una resurrezione a nuova vita. Estrae ben nascosto da una tasca un cellulare, ma che dico, uno smartphone modernissimo, lo culla tra le mani con religioso rispetto, in attesa…

Aspetta che la vita inizi un canto di speranza con uno squillo di richiamo.

“Oh… ciao Guido, come va?… Qui tutto bene… sì anche gli affari… a volte un po’ di malinconia, ma ci sono gli amici e una partita a carte… Pensi di ritornare in Italia a Natale?… Sono contento, ma chiamami perché ti vengo a prendere in aeroporto…Gli studi tutto bene?…”

Piange, senza ritegno, commosso e preoccupato per quel figlio da due anni in America con una borsa di studio a cui ha taciuto l’abisso del presente. Un telefono prezioso per comunicare, per sopravvivere.

La gente non sa leggere il mondo che c’è in quella mano tesa.

Nene Ferrandi

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