Un confronto inedito tra due visioni della natura morta prende vita alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano dall’8 maggio. Da un lato, la celebre Canestra di frutta di Caravaggio, un’immagine vivida che racchiude in sé il ricordo della vita e la sua intrinseca caducità. Dall’altro, l’opera di Jago, un cesto di marmo che non offre frutti, ma una fredda e inquietante “accozzaglia di oggetti” votati a un unico scopo: uccidere.

La mostra, intitolata “Natura morta. Jago e Caravaggio: due sguardi sulla caducità della vita”, mette in dialogo passato e presente attraverso questo singolare accostamento. Lo scultore Jago, classe 1987 e attualmente ospite del padiglione Italia a Expo Osaka 2025 con l’opera Apparato Circolatorio, sceglie il marmo, suo materiale d’elezione, per riprodurre fedelmente pistole, fucili e mitragliatori.
L’idea di questo confronto espositivo è nata quasi per caso, come racconta Jago in un’intervista all’ANSA: “Non avrei osato avere una conversazione di questo tipo. Avevo progettato quest’opera e parlandone con Iole Siena di Arthemisia, che collaborerà al catalogo edito da Moebius, lei ha intercettato l’interesse della Veneranda Biblioteca Ambrosiana. Ne abbiamo discusso con i responsabili ed è nata la mostra”.
Ma perché sostituire la frutta con le armi? Jago, al secolo Jacopo Cardillo, spiega: “La natura morta come soggetto pittorico rappresenta l’emancipazione dell’artista dal racconto narrativo. Una natura morta è semplicemente tale. E questa è la base della mia opera. Sono talmente disgustato e afflitto da ciò che mi circonda in quest’era di comunicazione da non riuscire a produrre un racconto. Produrre un’immagine era la forma espressiva più vicina al mio sentire. Se pensiamo che ‘Natura morta’ in inglese si traduce con ‘Still life’, ‘vita che c’è ancora’, comprendiamo come la vita sia insita nelle parole stesse. Nella Canestra di Caravaggio quasi percepiamo il sapore della mela, è un’immagine radicata nella nostra memoria, che evoca la caducità ma anche la persistenza della vita”.
“Viceversa, nella mia opera – prosegue lo scultore – dov’è l’arte? Questi oggetti non sono una mia invenzione, non ho creato nulla di nuovo, ho semplicemente realizzato una composizione per esprimere qualcosa di indicibile. I veri artefici sono i criminali di guerra che ogni giorno causano innumerevoli vittime. Io non ho creato quegli strumenti di morte, li ho solo disposti in una composizione. Viviamo immersi in realtà innominabili, in cose oscene”.
Così, il cesto colmo di armi in marmo bianco diviene “l’immagine dell’inutilità della creatività umana asservita all’insensatezza di scopi antitetici alla vita. È un’accozzaglia – chiarisce l’artista – che testimonia lo spreco, l’incapacità di dare priorità alla comunicazione, all’amore, al valore reciproco, a tutto ciò che la storia avrebbe dovuto insegnarci. Ma evidentemente la storia non viene studiata: siamo condannati a ripetere, o addirittura peggiorare, ciò che avrebbe dovuto lasciare un segno. In qualche modo, questa è ancora la nostra eredità, su cui continuiamo a investire”.
Jago sottolinea la dicotomia arte-non arte alla base del suo dialogo con il maestro lombardo: “Non credo ci sia arte nella mia Natura morta. Attribuisco la realizzazione dell’opera a chi ha ideato e utilizzato quegli strumenti, e a chi li ha perfezionati. È come una tavola rotonda dove i partecipanti condividono solo l’intento di offendere. Quelli siamo noi; posso scegliere di alzare lo sguardo e ammirare Caravaggio, almeno lui mi offre una possibilità, lì dentro c’è un po’ di vita”.
La reinterpretazione della tradizione è una costante nel suo lavoro: “Ragiono in termini di linguaggio, e ci sono linguaggi in cui mi riconosco. Quello della tradizione non è una lingua morta, è ancora in comunicazione con noi. Gli argomenti non sono esauriti e continuano a raccontarci cose meravigliose, probabilmente in modo più efficace di quanto riusciamo a fare noi oggi, perché portano con sé la saggezza di un tempo. Mi identifico in questo linguaggio, e le opere che realizzo oggi, pur senza voler fare paragoni, vi sono vicine; ho scelto questa via perché mi riguarda profondamente. Non ha a che vedere con il sistema dell’arte, con lo studiare come ottenere un risultato facendo determinate cose, non c’è quel tipo di costruzione dell’io artistico: esprimo chi sono e cosa amo realmente, cosa rimane se tolgo tutte le sovrastrutture? Il risultato è ciò che faccio”.
In merito alla sua partecipazione all’Expo di Osaka con il tema “L’Arte Rigenera la Vita”, Jago presenta Apparato Circolatorio: “In quel caso l’opera è precedente, risale a un periodo in cui sperimentavo con un materiale solido ma fragile come la ceramica; sono 30 cuori scolpiti, che poi diventano 30 fotogrammi in un video di un secondo, il tempo di un battito. Con Apparato Circolatorio ho voluto dimostrare come anche un materiale solido e apparentemente immobile possa arrivare a muoversi e a pulsare. L’opera prende vita, trasformandosi in un battito eterno”.
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