“un aiuto, se puoi”: un’Ucraina a Milano

Le storie di Nene Milano

Offre una margherita. “Un aiuto, se puoi…”, sussurra al passante frettoloso o pigramente seduto all’ombra dei suoi pensieri. “Se puoi…”, ripete e regala uno sguardo velato di malinconia.

Zoppica vistosamente, un viso bello e intenso ancora giovane, veste la sincerità di un abito pulito e consunto, una treccia bionda raccoglie i capelli, ha i gesti lenti di una volontà appassita.

Il respiro del parco sembra non avere limiti, un sospiro di pace vibra nell’anima, l’autunno riflette la dolcezza del tempo.

“Un aiuto, se puoi” e quel fiore, raccolto nei prati, che dava tenerezza alla richiesta, barcollante e gentile, mi incuriosiva, ma non volevo essere invadente. Ispirava un desiderio di protezione, suggeriva il sospetto di un periodo difficile, era l’espressione di una dignità sentita.

Le anatre giocavano nel laghetto e pensavo “Vorrei essere un gabbiano, libero che sa volare sfiorando l’infinito…” Pensieri, illusioni, sogni…

“Ciao, ti vedo spesso…” e mi regala un mazzetto di fiorellini, un contatto di simpatia, di fiducia.

“Sono Angelica, una profuga ucraina” e con la voce sommessa del pudore, racconta ed è una cascata limpida di paura, di straziante verità, ma anche di luce, di colore. L’amicizia nasce anche così, uno scambio quasi ossessivo di confidenze, di memorie famigliari, di tramonti rossi di sole.

“Vieni, vieni con me…” dico “Vieni sulla mia giostra di vita… c’è l’arte, la compagnia e… un buon caffè, in un bar amico, dove ti vorranno bene.”

Al pianoforte dimenticato in un angolo del bar, Angelica assorta, suona Tchaikovsky, la filigrana sonora di leggerezza e di ritmo del concerto n.1 op 23. Non è solo magia, virtuosismo, ma profonda nostalgia, visioni struggenti di vita. E l’incanto. Esiste solo il sorriso di un ricordo.

Tutti insieme tentando di aggrapparci all’aria
come un uccello che afferra l’orlo della libertà con l’ala.

 Si stringono al seno materno del cielo di dicembre
come se non volessero accettare questa rinascita
come figli illegittimi di un paradiso smarrito” (Ilya Kiva)

Il silenzio non osa fare domande. La musica, Tchaikovsky, diventa un appuntamento quotidiano, una vibrazione di simpatica vicinanza. L’amicizia sta in quel piccolo mazzo di fiori raccolti nei prati che ogni giorno offre con un gesto complice di riconoscenza.

“Sono una pianista e vivevo a Kiev…” e la voce si fa materia, rabbia, dolore, fierezza, ideale.

Strade deserte, esplosioni improvvise, edifici distrutti come un presepe di carta. Missili. Il sibilo dei razzi. Il rumore cupo dell’artiglieria. Le iene russe vestite da soldati. La paura che non sa ragionare. Procurare il cibo. Guardarsi negli occhi per trovare una risposta al delirio di un tempo che ad intermittenza diventa incubo. Il dolore non tacitava la ribellione.

Là c’era anche un piccolo parco giochi

“È naturale che quando i bambini corrono nel parco giochi

 Trovino i giocattoli imbrattati di sangue
I giocattoli dei bambini morti [sotto i razzi]
Che il giorno prima sono stati portati dal parco giochi
Direttamente all’obitorio

 I bambini come di solito fanno i bambini
Stringono al petto i giocattoli imbrattati di sangue

 Giocattoli dei bambini morti
I genitori cercano di toglierli i giocattoli
I bambini piangono
Loro non hanno i giocattoli così belli
Giocattoli imbrattati di sangue
Dei loro coetanei
Ed è naturale” ( Olena Ponomareva)

C’era anche mio figlio, morto ad otto anni. Fui ferita ad un ginocchio, gravemente. Fuggire “Devi andare”, diceva mio marito. L’odissea di un treno che scivola lentissimo sui binari, nel silenzio e nel buio assoluto. Decine di vagoni, disperati con un’angoscia dilaniante. Le esplosioni a tre o quattro chilometri. Leopoli, i canali umanitari. Finalmente un ospedale a Milano. Zoppico, ma sono viva. Poi sono stata accolta da un sacerdote che ha reso disponibile quattro stanze per i rifugiati e il cibo. Ero sorpresa per una normalità che divide il tempo, i desideri, i pensieri… ma il ricordo di mio marito rimasto a combattere, di mio padre nascosto in una cantina quando il cielo si incendiava di bombe, era una ferita che sanguinava, quasi un senso di colpa… Che posso fare? Mi chiedevo.”

La musica è dolente. Le immagini muoiono nel sangue degli innocenti. Una trepidazione che non può diventare rassegnazione. “Vinceremo” la forza del cuore. “Tornerò”, l’estrema speranza.

“Chiedo ‘Un aiuto, se puoi’ per mio padre, mio marito, chi combatte, chi aspetta, chi vuole la fine di una guerra senza ragione… Un fiore per dire ‘Grazie’. Sono Ucraina e ne sono fiera. Non posso fare di più

Nene Ferrandi dal volume “l Racconti dell’Anima”

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