“Mio figlio non legge più”: rispondiamo alla lettera di una madre preoccupata

Cultura e spettacolo Società

Cosa distoglie gli adolescenti dalla lettura e cosa si può fare per avvicinarli ai libri?

Sono una madre profondamente preoccupata per mio figlio sedicenne, che sembra aver completamente perso interesse per la lettura. Fin da piccolo gli ho letto fiabe, abbiamo scelto libri insieme e cercato di coltivare il piacere della lettura, ma con l’adolescenza tutto è cambiato. Ormai legge solo il minimo indispensabile per la scuola e, appena può, passa il tempo davanti allo schermo dello smartphone o del computer. Anche quando gli impongo di stare senza dispositivi, preferisce semplicemente non fare nulla piuttosto che leggere e sembra cadere in uno stato di apatia.

Questa situazione mi addolora e mi spaventa. La lettura è sempre stata per me un rifugio, un modo per crescere, conoscere il mondo, sviluppare empatia e capacità critiche. Vedere mio figlio allontanarsi da tutto questo mi fa sentire impotente e fallita nel mio ruolo educativo. Mi stupisce, inoltre, che i libri proposti dalla scuola siano così semplici e focalizzati su tematiche di attualità. Mi aspettavo che venissero assegnati ancora gli intramontabili grandi classici della letteratura. Invece si punta su autori contemporanei, forse più vicini al linguaggio dei ragazzi, ma che non sembrano in grado di stimolare una vera passione per la lettura.

Mi chiedo se sia un problema della nostra epoca, se i ragazzi di oggi siano ormai troppo immersi nelle tecnologie per apprezzare il piacere di un buon libro o se sia la scuola stessa a non riuscire più a trasmettere il valore autentico della lettura.

Comprendo perfettamente la sua preoccupazione e voglio innanzitutto rassicurarla: non ha assolutamente fallito nel suo ruolo educativo. Il suo amore per la lettura e il desiderio di trasmetterlo a suo figlio dimostrano che è una madre attenta e premurosa. È molto importante che, grazie al suo esempio, suo figlio, quando era un bambino, amasse la lettura e leggesse. Questa attività gli ha permesso di costruire una predisposizione. Le neuroscienze direbbero che suo figlio ha avuto l’opportunità di sviluppare funzioni cerebrali importanti in un momento della vita in cui la neuroplasticità del cervello, ovvero la capacità del cervello di modificare le proprie strutture, è al massimo grado.

Dai dodici anni in poi, all’incirca, i ragazzi tendono a non ascoltare più i genitori, ma gli amici. Pertanto, considerato che i nativi digitali privilegiano i dispositivi (smartphone e tablet) ai libri, si capisce che suo figlio si sia adeguato: è un modo per restare in contatto con i suoi coetanei e per essere accettato. Purtroppo, il grande rischio di questi ragazzi è la dipendenza dai dispositivi. Le neuroscienze hanno da tempo chiarito il meccanismo del piacere che si determina nell’interazione costante con il cellulare, sia nel mettere o ricevere dei “like”, sia nel rispondere o ricevere messaggi in chat e anche nello “scrollare” contenuti sulle varie piattaforme dei social media. Queste operazioni attivano il “sistema dopaminergico” di rinforzo, per cui se si sottrae lo smartphone, i ragazzi entrano in stati ansiosi o apatici, in quanto si interrompe il “meccanismo della ricompensa” al quale sono abituati e da cui ormai dipendono. Questo meccanismo è uguale a quello della dipendenza da sostanze, quindi non va affatto sottovalutato. Il punto è che ne siamo immersi anche noi adulti, che pure abbiamo un cervello più strutturato e quindi siamo più protetti. Lo smartphone è diventato un nostro prolungamento, sia fisico che psichico, e una sorta di memoria esterna, che è parte di noi, per cui separarsene diventa un dramma.

Trovo molto positivo che il Ministero dell’Istruzione obblighi a rinunciare al cellulare durante le ore di scuola perché ciò evita la dispersione di energie e la perdita di concentrazione. Tuttavia, gli insegnanti si trovano il carico di dover colmare questo distacco con lezioni coinvolgenti, in grado di motivare l’apprendimento, facendo leva sulle emozioni. Questa consapevolezza non è ancora diffusa a sufficienza nel corpo docente. Lo si riscontra anche nella scelta dei libri che la scuola assegna.

La sua osservazione sui libri di lettura da proporre agli studenti tocca un problema cruciale: il modo in cui la scuola propone la lettura. Vengono assegnati libri poveri di lessico e di contenuti, per lo più di intrattenimento o su temi legati alla cronaca, evitando i classici. “Gli intramontabili grandi classici della letteratura”, che lei cita, sono libri senza tempo, che andrebbero letti perché forniscono una vera e propria educazione ai sentimenti e costituiscono un patrimonio comune di conoscenza che permette di costruire la nostra identità culturale.

I programmi scolastici, oltre tutto, prevedono che i testi vengano “vivisezionati” – come dice Susanna Tamaro -attraverso asettiche analisi che li destrutturano in sequenze e li riducono ai loro elementi narrativi, svuotati da ogni emozione. Non si trasmette lo spirito di uno scritto, la bellezza di una frase, il gusto per la scelta delle parole. L’estetica di uno scritto, capace di muovere le emozioni e di condurre alla riflessione è del tutto trascurata. Nel momento in cui si analizza un testo in questo modo, la sua qualità diventa irrilevante. Non voglio dire che non sia importante capirne la struttura e conoscere le tecniche narrative, ma questo si dovrebbe fare solo in un secondo tempo, quando si è riusciti a far gustare la lettura.

In aggiunta, si impone la lettura come prestazione, come qualcosa da misurare e valutare, anziché come un’esperienza psichica profonda. Eppure, la lettura, come la scrittura, su cui è modulata, è una funziona che integra la struttura psichica, come sottolinea Daniela Lucangeli. Quindi è tutt’altro che prestazione. Quando si fanno verifiche su un libro con una raffica di domande brevi che richiedono una risposta puntuale, si controlla se gli studenti abbiano effettivamente letto il libro, abbiano quindi svolto il compito a casa, per poi esprimere un giudizio che si concretizza in un voto, omettendo del tutto di indagare cosa i ragazzi abbiano compreso di quel libro, cosa sia loro rimasto da punto di vista emotivo, quali riflessioni abbia suscitato.

Cosa possiamo fare, allora? Il primo passo è cambiare prospettiva. Invece di preoccuparci del perché il ragazzo “non legge”; chiediamoci: Cosa lo emoziona? Cosa lo incuriosisce? Come possiamo fare per attrarlo verso la lettura? Un adolescente legge quando trova un significato emotivo nella lettura. Non forziamo un libro, ma scopriamo insieme a lui cosa lo può appassionare, senza pressioni e senza giudizio.

Inoltre, creiamo contesti di lettura piacevoli e condivisi. I ragazzi imparano per modellamento: se vedono noi adulti leggere con entusiasmo, sarà più facile che si avvicinino alla lettura spontaneamente. Possiamo leggere insieme, discutere storie, ascoltare audiolibri. L’importante è legare la lettura a emozioni positive, senza trasformarla in un obbligo scolastico da prestazione. Sveliamo la bellezza del suono di un brano letto ad alta voce, stimoliamo la curiosità ai temi trattati, ai sentimenti profondi che comunica, al potere evocativo e simbolico della parola. Apriamo l’animo dei ragazzi alla magia della lettura, come qualcosa di affascinante e misterioso, prezioso e unico.

Caterina Majocchi – Counselor

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