Sono numerosi gli esponenti della c.d. democrazia islamica; divisi in mille nicchie, mai d’accordo fra loro, diffusi soprattutto fra l’emigrazione araba in Occidente senza peraltro avere seguito né nei paesi musulmani né negli occidentali. La loro idea di fondo rivendica la primogenitura islamica della democrazia, vuoi per il principio della shūrā, previsto dal Corano (Cor. 3,159), che ingiunge ai governanti di consultarsi, vuoi per il primato della sharī‘a (letteralmente strada battuta, il cammino che conduce alla fonte a cui abbeverarsi, ovvero legge, complesso di regole dettato da Dio per la condotta morale, religiosa e giuridica dei suoi fedeli) su legislatori e governanti che ad essa devono attenersi, vuoi per la natura civile delle istituzioni stabilite da Dio (mufti, qādī, califfo, shaykh) che ne esclude la natura teocratica. Il filosofo modernista apologetico ‘Imāra rivendica l’associazione fra Islam, che abolì la schiavitù, e libertà (Lewis, nel linguaggio politico dell’Islam ricorda che nella legge islamica fino al XVIII secolo libero significa solo non schiavo). Il libero arbitrio rifiuta il dispotismo, il fatalismo e l’accettazione della tirannide. L’Islam ha santificato la libertà dell’uomo in tutti gli ambiti. L’uomo è libero anche di non credere.
Il riferimento è alla scuola teologica dei primi secoli dell’Islam, Mu‘tazila (contestata dall’ortodossia ash‘arita come importazione del pensiero greco), in difesa del libero arbitrio e contro ogni predeterminazione. L’Islam non può essere teocratico perché nessuna autorità religiosa rappresenta Dio e la shariʿa è elettiva; questa però è un consesso nei fatti religioso cui, e non non nella sovranità popolare, spetta l’ultima parola. La guida della comunità islamica per i mu‘taziliti è l’imam, non ereditario, non santificato, eletto dalla umma. Dopo i califfi Rashidun, la scuola mu‘tazila si oppose alla discendenza monarchica che venne imposta sia dai califfi arabi Omayyadi che sostenevano la predeterminazione, sia dai califfi persiani Abbasidi, fondantisi sul diritto divino. L’egiziano modernista Qarādāwī fa prevalere la libertà sulla morale della sharī‘a, pur accettando la condanna a morte degli apostati. L’Islam deve essere scelto e non imposto, ma solo l’Islam può essere scelto perché ogni altro riferimento è illegittimo. Per lo storico marocchino Laroui, manca all’Islam il senso della necessità della libertà politica; conta solo la natura comunitaria della giustizia. L’uomo, essere responsabile, si dichiara libero ma solo nella umma (comunità’, nazione, etnia di fedeli, senza alcun significato etnico, linguistico e culturale). Nella sua vicenda storica lo Stato islamico, ancorché autocratico, è stato lasco nei confronti dei sudditi controllandone poco la vita sociale, soprattutto nomade. Il beduino è sottomesso solo a leggi geografiche e naturali immutabili, sfuggendo allo Stato cui preferisce, per i propri diritti, appellarsi al clan.

L’ideologo tunisino del partito Ennahda, Ghannouchi prese importanza dopo il rovesciamento rivoluzionario del regime di Ben Alī. Ghannouchi (Le libertà pubbliche nello Stato islamico ‘93, riedito, nel 2011) enunciò siamo entrati nella vita politica tunisina per realizzare le libertà e non per stabilire un governo islamico. L’Islam è libertà autentica, la responsabilità dell’uomo su cui Dio ha investito; superiore sia alla libertà borghese formale occidentale che alla schiavitù marxista. L’apostasia non può essere un crimine religioso, ma è ribellione contro il governo poiché l’Islam è sistema di vita ed ogni atto rivolto contro l’Islam è contro l’ordine pubblico. Ne La democrazia e i diritti umani nell’Islam 2012, lo Stato islamica è democrazia contemporanea (con la partecipazione elettorale, la competizione partitica, il rifiuto della violenza), superiore moralmente, conforme alla sharī‘a. Di fronte alla sconfitta, il partito musulmano deve capire l’interpretazione dell’Islam che emerge dalla società. Ennahda nel 2011-13 guidò due governi di coalizione promuovendo l’islamizzazione del sistema politico; dopo la crisi del 2013 Ghannouchi votò la Costituzione con la libertà di coscienza, il pluralismo politico e la protezione del sacro garantito dallo Stato. La libertà, comunque, si realizza in un ordine politico senza separazione tra politica e religione. Nell’Islam la legiferazione dipende originariamente dalla volontà di Dio. I governanti non sono mai interpreti autorizzati della legge divina. La democrazia islamista alla fine, è figlia del compromesso politico a ogni costo.
Ci si era fatti l’idea che la Tunisia fosse, tra i paesi arabi, quello più vicino all’Occidente. L’economia turistica, i legami con la Francia e l’Italia, le scarse recriminazioni anticoloniali, l’islamismo moderato davano questa convinzione. Il Cato Institute di Washington si interroga sulla speranza di democratizzare il mondo arabo, che poi significa occidentalizzarlo ed i postcomunisti di Reset, felici di perseguire l’antico terzomondismo, divulgano. La Tunisia però non è mai stata una democrazia. I Bey di Tunisi, antichi pirati, finirono con il protettorato francese nel ’57. Seguirono i 30 anni dell’eroe dell’indipendenza, Bourguiba, leader dei partiti Néo-Destour e Socialista Desturiano; poi i 23 anni del successore, l’ex premier Ben Ali, appoggiato dall’Italia, del Rassemblement Constitutionnel Democratique fino al 2010. Già nel ’56 e ’57 vennero proclamati voto femminile, divorzio invece del ripudio, età minima e reciproco consenso per il matrimonio, l’abrogazione dell’hijab nelle scuole, del tribunale coranico, della poligamia e del dovere di obbedienza della sposa. Poi la Tunisia visse tra virate socialiste del ’63 e filo capitalistiche dell’81, le repressioni del ’78, dell’83 e ‘84, sempre per il prezzo della baguette, motivo anche delle manifestazioni del 2010 e ‘11 che sfociarono nella rivoluzione dei Gelsomini e fecero dimettere Ben Ali.
Le prime elezioni libere tunisine si tennero 57 anni dopo l’indipendenza nel2014 con la prima costituzione democratica ed i nuovi diritti rivoluzionari islamici. La classifica Freedom in the World della Freedom House e l’Economist Intelligence Unit acclamarono, tra il 2014 ed il 2020, la Tunisia come l’unica democrazia funzionante della primavera araba, mentre altre classifiche ne denunciavano l’altissima corruzione. Secondo la Marks ed il tunisino Masmoudi, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per tre anni destabilizzarono il modello tunisino. In particolare, l’esercito egiziano costruì un rapporto con l’intelligence tunisina, esportando il modello di politica militare di un paese dove l’esercito governa da 70 anni. Venne inculcata l’obbedienza al Presidente invece che alla Costituzione.

Venne poi eletto l’indipendente Saïed che, in un vero e proprio colpo di stato, dopo due anni da presidente, sospese il parlamento, sciolse il consiglio della magistratura, fece arrestare numerosi esponenti politici e licenziò il premier. I detrattori accostano Saïed al centralismo anticorruzione del libico Gheddafi, o anche all’algerino Ben Bella, senza intermediari civili, media e partiti. Il referendum costituzionale del 2022,con il 30,5% dei votanti, ha reso la Tunisia una repubblica presidenziale.
In realtà il paese è tornato allo standard ordinario dello Stato monopartitico vissuto per tutta la sua storia moderna. Elezioni, diritti umani, buon governo, responsabilità e trasparenza non hanno retto di fronte all’ostacolo economico ed alla fame popolare, determinata da stagnazione, pandemia, crollo del turismo (flusso abituale di 6-8 milioni di turisti). La Tunisia non dimostra che la democrazia araba possa funzionare, anzi; malgrado i diversi governi di coalizione di islamisti e laici, il dibattito è stato spesso lento, faticoso, privo di risultati, frustrante nella frammentazione partitica, nel timore del ritorno di poteri forti, determinando esaurimento disperante sociale, in una paese dalla fitta corruzione. Così l’illegittimo colpo di stato presidenziale contro la Rivoluzione dei Gelsomini, cominciato come provvisoria emergenza, è stato salutato come risolutivo e necessario per uscire da una stagnante risacca e scatenare gli umori popolari che peraltro odiano i neri africani. Mancavano molti elementi costitutivi della volontà democratica generale. L’illusione, ancora coltivata utopisticamente, si è sgonfiata rapidamente. La Tunisia ha confermato la sua natura araba.

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.