Thaïs originale, per la prima volta alla Scala

Cultura e spettacolo

Si può considerare una novità la presentazione di Thaïs di Jules Massenet al Teatro alla Scala, poiché l’unica precedente apparizione fu in lingua italiana, nel febbraio 1942, con Gino Bechi e Mafalda Favero nei panni di Atanaele e Thaïs, direttore Marinuzzi. Il romanzo di Anatole France da cui è tratta l’opera di Massenet, è ambientato ad Alessandria nel IV secolo dopo Cristo, città per usi e costumi di raffinata cultura ellenica, lontana dal mondo egiziano dei faraoni. Il poeta francese, cui arrise la definitiva consacrazione con questo lavoro, ne fa un amaro quanto impietoso e ironico attacco non tanto a Gesù Cristo e alla religione cristiana ma alla deriva presa dai suoi seguaci, che arrivarono a sublimazioni inaudite – nei frequentatissimi deserti – per il loro fanatismo religioso. Nel suo romanzo il monaco Paphnuce è figura presa in giro per la repressione sessuale, gongolando quasi l’autore dello stato di degradazione cui perviene il personaggio principale. Il librettista Louis Gallet produce, per Massenet, uno dei primi libretti d’opera non in rima, semplificando l’azione e concentrandosi sui due personaggi principali, Thais e di Athanaël, facendo di quest’ultimo (dopo avergli cambiato nome) un personaggio più austero, anche se del pari tormentato e meno ridicolo di quello di Anatole France. La prima di Thaïs – Opéra di Parigi 16 marzo 1894 – ebbe a protagonista la bella Sybil Sanderson che, accidentalmente, mostrò i seni in pubblico. Da allora la partitura si trascina un’aura di melodramma dalla facile esibizione di situazioni sessuali  e nonostante il successo ottenuto ( che durò almeno fino alla metà degli anni ’50 e non solo in Francia) il compositore francese Vincent d’Indy bollò l’opera quale esempio di “erotismo discreto e semireligioso“. Il nuovo allestimento del Teatro alla Scala era firmato dal regista Olivier Py, scene e costumi di Pierre-André Weitz coreografie di Ivo Baucchiero. Messinscena quanto meno bizzarra, che alterna claustrofobicissime mura di mattoni grigi (che torneranno al finale) a un luna park di striptiseuses in vetrina, inquadrate da celebri frasi dantesche, cui si aggiungevano tableaux vivants di vieto sapore blasfemo, letteralmente copiati dal simbolista Félicien Rops con spunti da Matthias Grunewald. L’effetto però là è ben altro… Fiamme di fuoco di carta bruciano lussuriosi, a girone infernale.

Una sentina di vizi, a ridicolizzare il combattimento della religione in favore dell’astinenza e della stretta morale sessuale, che sfocia nel cabaret con tanto sesso esibito e nessuna sensualità. Pessima la coreografia, se non per il godibile passo a due vitalizzato dalla valentia dei solisti. Sul podio il Maestro Lorenzo Viotti sa creare atmosfere, dispiegando la partitura in vigorose pennellate orchestrali, agìta con estrema dinamica sonora che passa dai pianissimi ai fortissimi, non esenti da spessori enfatici e “pompier”.  Ricava dall’orchestra tutto il calore e la morbidezza necessari: serena bellezza della scena prima I atto, del duetto del II atto e lo struggente lirismo della morte della protagonista. A latitare però è il cotè sensuale della partitura, reso in maniera quasi astratta e senza vero abbandono. Ottima la “Meditation”, esemplificazione dell’immenso potere seduttivo di Thaïs, eseguita in maniera impeccabile dal violino solista e nell’intensa interpretazione di Emanuela Montanari e Massimo Garon. Lucas Meachem presta ad Athanaël, un timbro baritonale di buon colore, che domina agilmente la tessitura: inizialmente pregevoli le mezze voci, che nel prosieguo tendono a sbiancarsi. Efficace interpretazione, venata da una qual certa nobiltà; mostra la sua inflessibilità e tormento interiore, pur capace di tenerezza nell’ultima scena. Giovanni Sala era un Nicias di leggero volume, voce poco proiettata non cantando “sul fiato”, che compensa con un’esagerata azione scenica imposta dalla regia. Marina Rebeka è stata una Thaïs charmeuse e sensuale, seducente cortigiana; un’entrata in scena ammaliante con “C’est Thaïs, l’idole fragile”, giocata sul canto più che sugli orpelli di scena, lavorando sulla parola e il fraseggio.  Voce piena e luminosa, omogenea, che sale in acuto senza difficoltà e con fascinose mezze voci; gli acuti, pur d’effetto emessi a piena voce, risultano un po’ troppo spinti e scoperti. Nel primo duetto avvolge Athanaël con malizia, ma già traspaiono vibrazioni di malinconica insoddisfazione. Insinuante e ironica, abile nell’agire in scena, spicca e si libra con il canto sulla misera volgarità che la circonda in scena. Nel II atto, Ah! Je suisi seule… enfin, trova accenti di accorata malinconia e convince nella successiva Air du miroir, scintillante e puntellata da preziosissime smorzature, nel trapassar di stati d’animo (e mimi che disturbano, con insulso agire, il dispiegarsi del canto e delle emozioni che suscita). Segue il cambio di registro verso la conversione, operato con credibile intensità drammatica per arrivare al finale, con quell’acuto attaccato in pianissimo, e in orchestra note di abbandono al fato. Coro della Scala in gran spolvero che merita una menzione speciale; già dalla scena iniziale (derelitti, più che anacoreti) con accenti e canto sfumati, ammaliante nel soggiogare l’uditorio con stupendi pianissimi in coulisse. Corretti gli altri. Festoso successo per l’intera compagnia, con punte d’intensità per Marina Rebecka e il direttore Viotti. 

gF. Previtali Rosti

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