I quattro bianchi ed il Moro di Livorno

Cultura e spettacolo

Non sono più lisi e arrossati i ginocchi. La fiammata del Black lives matter sfiata sempre più debolmente, malgrado l’accanimento terapeutico dei media, lasciandosi alle spalle un’iconoclastia occidentale, mutuata dai talebani e dal Daesh. Anche questa rabbia per il presunto razzismo nei confronti di neri e nazioni nere passa per ripristinarsi sotto altra forma, visto che la sconfitta statistica di neri e nazioni nere è un dato costante nei millenni. Per ora restano, ingiustificate vittime, pezzi di statue, come quelle di Colombo, oppure riverniciate a spray come quella di Montanelli e ancora tanti inconsistenti girotondi inoffensivi come avvenuto attorno anche al complesso monumentale dei Quattro Mori di piazza Micheli a Livorno. Il centinaio di convenuti non avrebbero mai provato ad abbatterlo già intimoriti dalla cancellata che lo circonda. Istintivamente la maestosa effige marmorea dell’uomo bianco, il Granduca Ferdinando I, (eretta dal Bandini nel 1599), dominante in alto su 4 figure bronzee di Mori incatenati (scolpite dal Tacca nel 1623), che possono apparire neri, li avrebbe dovuti fatti arrabbiare di più. Non l’aveva definito disgusting monument nel 1830 il pittore americano Peale?

In altra epoca, 1799, le intenzioni inococlaste c’erano tutte, contenute nell’appello ai livornesi del generale napoleonico Sextius Alexandre François de Miollis, un solo monumento esiste in Livorno …, monumento della tirannide, che insulta l’umanità. Quattro sventurati, incatenati al suo piedistallo, offrono, da trecento anni, spettacolo affliggente appena si mette piede sul porto. A Parigi la neonata Repubblica del 1792, di statue con trionfatore e prigionieri, ne aveva abbattute ben due, quella per il Re Sole e quella per Enrico IV e di quest’ultima era autore proprio l’assistente del Giambologna, lo scultore Tacca, creatore e conoscitore dei Mori. Sextius sembra appoggiare la causa dei prigionieri incatenati ai piedi del granduca mediceo, visti come quattro bon sauvage, rivoluzionari in pectore per la libertà e l’uguaglianza; l’odio è tutto però per i monarchi dell’ancient regime, come dimostra il proseguo della lettera, I quattro sventurati ..cento volte più valorosi del feroce Ferdinando che li calpesta. I sensi del dolore, dello sdegno, del disprezzo e dell’odio, devono, necessariamente, agitare ogni anima sensibile che ivi s’avvicini. Vendichiamo l’ingiuria fatta all’umanità. Compiacetevi cittadini d’ordinare che la statua della libertà sia sostituita a quella di questo mostro. Con una mano spezzi le catene dei quattro schiavi, coll’altra schiacci, colla picca, la testa a Ferdinando disteso al suolo.

Sextius si è infervorato ideologicamente in America dove, ferito a Yorktown, 22enne, è divenuto capitano. Lì ha toccato il cielo; ha battuto gli inglesi anche in mare (cosa più unica che rara per i francesi); ha sostenuto la rivoluzione americana degli schiavisti indipendentisti; mentre Luigi XVI non comprendeva i rischi dell’adesione ai principi antimonarchici dell’alleanza franco americana. De Miollis poi ha fatto le guerre delle prime Repubbliche, ha seguito Napoleone in Italia e per lui, da generale di brigata, ha assediato Mantova. A Livorno quella volta non ci venne; vi si recò il Bonaparte, costretto dal Direttorio, disse, ad occupare la città perché gli inglesi bloccavano il porto. Napoleone il 27 giugno 1796 trova ispirazione nei Quattro Mori per la campagna d’Egitto. Tre anni dopo il clima è diverso. I francesi, dopo i capovolgimenti di fronte, tornano inferociti e se ne andranno scornati. Non badano più a repubbliche o neutralità e commissariano Piemonte e Toscana; quest’ultima è affidata alle cure del generale di divisione Sextius che nel marzo chiede alla cittadinanza di distruggere la statua dei Quattro mori, sbagliandone pure l’età (non 300 anni ma meno di 200).

L’impeto di gioventù del generale, che pure è fratello di prefetti, cardinali e consiglieri borbonici, è poco motivato; il giacobinismo non è più di moda a Parigi che a novembre inaugurerà il Consolato. A marzo la statua di Ferdinando viene effettivamente levata ma a luglio la cittadinanza, affatto rivoluzionaria e molto sanfedista nel nome di Vivamaria, la ripristina con tanto di cerimonia ufficiale. De Miollis riesce solo a portarsi via i trofei barbareschi collocati sullo zoccolo (turbante, arco, turcasso e scimitarra), opera di Taddeo di Michele come il piedistallo in marmo. Al livornese Archivio di Stato sostengono ancora che li abbia il Louvre che non li trova però in archivio. Al loro terzo ritorno, i francesi del Primo Console ed Imperatore, faranno della Toscana un semplice dipartimento, dove i Quattro Mori illustrano l’atmosfera imperiale. Fino allo spostamento del 1888, i travagli durante la seconda Guerra Mondiale e la ricollocazione del 1950. Mancano all’appello le due fontane di mostri marini del Tacca, portate  nella piazza fiorentina della Santissima Annunziata. Ci penserà il sindaco La Pira nei primi ’60 ponendo due copie delle fontane a Livorno, in piazza Colonnella.

Il fatto è che i detrattori non conoscevano nomi e storie delle vittime da loro difese; i Mori che infatti Peale chiamò  asiatici. Ci aveva invece confidenza il Tacca che per scolpirli andò a cercare i suoi modelli fra i galeotti del Bagno dei Forzati, appena ricavato dal consolidamento delle prime mura del Porto Pisano nelle Fortezze, e che è la maggiore galera di schiavi europea. Più grandi sono solo quelle musulmane in Africa e Asia. Schiavi a Livorno, ricorda l’americanista Testi, ce ne sono parecchi, 800 stanziali sui diecimila abitanti, all’epoca, e migliaia come ciurma. Schiavi ci sono nell’Africa araba e nera; in tutto il Mediterraneo europeo e asiatico; ed è già cominciato lo schiavismo afroamericano, dove gli acquirenti sono gli eroi della rivoluzione americana, fra cui i Peale ritrattisti di Washington. Tacca si aggira fra i prigionieri, banditi e criminali del mare; i più sono turchi, berberi, greci, mediorientali. I neri africani sono una minoranza. I modelli devono rappresentare le diverse stagioni della vita, le diverse reazioni psicologiche e le accentuate torsioni della rabbia, del dolore e della rassegnazione alle catene, le diverse etnie mediterranee e le diverse plasticità delle forme e dei movimenti anatomici come da lezione del Giambologna.

Il Tacca ne scolpisce prima due, posti frontalmente; sono un greco ed un turco; poi le statue posteriori di un berbero e di un nero sub sahariano. Morgiano, Alì Melioco, Alì Salettino e l’Anonimo. Un giovane vigoroso che guarda il cielo ed un vecchio rugoso in viso ma muscoloso e possente; dietro, un uomo possente nell’età più florida ed un adolescente, tutti con i capelli tirati a codino dietro la testa. A parte uno, sono tutti bianchi, Mori solo per il bronzo impiegato. Provengono da storie di guardie e ladri, spesso a parti rovesciate, che si ritrovano nei libri di bordo dei comandanti della flotta dell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, il conte parmense Pier Luigi dei Rossi ed i fratelli Francesco e Bartolomeo Barbolani detti da Montauto. Questi hanno una piccola flotta (2 galee grosse e 3 sottili, chiamate Fiorenza, Siena e San Giovanni) e bastano 8 galee ed una galeotta del Sultano a farli fuggire. Nondimeno Rossi tra 1566 e ’90 libera più di 500 cristiani in catene al remo e schiavizza 500 corsari; cattura 15 navi tra feluche, fregate, brigantini, vascelli, galeotte algerine e caramussali ottomani. Il generale di mare Francesco da Montauto, gran artigliere, passa dalla conquista di carichi di formaggio e di cavalli all’attacco a Tolometta in Cirenaica ed alla presa delle isole delle Pomegues, di fronte a Marsiglia ai danni dei Savoia. Probabilmente si scontrarono con le navi della repubblica marinara barbaresca di Salé, non distante dalla capitale marocchina Rabat. Da lì viene il berbero ritratto nel quartetto, Alì Salettino, un corsaro forse temuto come il catturato bandito turco Mehemet Rais assieme ai suoi  67 ladroni.

Il mare dell’illegalità di oggi tra trafficanti, Ong, barchini, barconi e flotte di soccorso e militari era il mare illegale anche ieri. Dalle Bocche di San Bonifacio, alla Corsica, dall’Egeo, a Favignana, Giglio e Giannutri, da Genova a Malta, Marsiglia, Messina, da Al Munastir occupata a Montecristo e Trapani, le operazioni di polizia, pattugliamento ma anche di furto (come dei 6000 ducati, tributo annuo di Tripoli ad Istanbul) si susseguivano, sempre alla ricerca della moneta sonante in carne ed ossa costituita agli schiavi. I quali non restavano passivi ma bloccavano le navi ammalandosi o rivoltandosi. Ci si inseguiva fin sulle spiagge, si frantumavano i legni finendo bloccati sugli scogli, si assisteva inermi al naufragio degli altri.

Il complesso dei Quattro Mori è un insieme di link. Si parte dal Ferdinando maestoso posto ai margini della darsena dallo scultore Bandini agli albori del diciassettesimo secolo; poi arriva il piedistallo e la posa tra la darsena e le nuove Mura. Il cipiglio marziale  è dato dall’uniforme di gran Maestro dell’Ordine dei cavalieri di Santo Stefano, istituzione di fede ma anche di difesa delle proprietà. La guerra di polizia in mare è l’unica che possa cogliere. I Medici con il danaro hanno finanziato ogni guerra e comprato ogni potere, laico e religioso che fosse, inclusa  Livorno per cui hanno speso la somma enorme di centomila fiorini d’oro; guerre però ne fanno poche. La dinastia di banchieri, mecenati, cultori delle arti, esoteristi, alchimisti, gran amministratori e gran maestri dei mistici clubs degli Ordini non è guerriera; non è nemmeno di mare. Non resta che dare tratto da guerriero al Fondatore nelle operazioni di pattugliamento utili e meno distruttive.

Per festeggiare Ferdinando I, il granduca cardinale, cioè glorificare Livorno e la nuova fortificazione, massonicamente pentagonale, made in Buontalenti, lo si deve trasformare in uomo d’arme. L’unica opportunità sono le guerre corsare, anche se di serie B. Oltre l’uniforme, per materializzarle non c’è che mostrare i nemici affrontati e battuti, di cui c’è dovizia di numero al Bagno. Che è anche l’occasione per mostrare uomini formidabili, strumento delle potenze marittime musulmane e così riabilitare le guerre medicee. Riconoscersi potenza nello specchiarsi in quella nemica. Ed ecco il Tacca con la seconda parte del monumento, già avvicinato ai bordi della banchina della Darsena vecchia.

Di passo in passo, però, il monarca, tutto solo, in pompa e posa nel cielo, è rigido, muto, astratto, come scrive il Testi; gli schiavi sono invece vivi, muscolari, emozionanti, individualizzati, razzialmente diversi; e guardano in faccia il visitatore. Si prendono tutto lo spazio, impersonando un’umanità non oppressa, ma vera, dolente e universale. Diventano i protagonisti che danno nome all’opera. L’accostamento dei materiali che dà il segno di un bianco che domina i neri è casuale. Persa la memoria delle corse e rincorse tra pirati e cavalieri, come si capisce dalle cronache.

Restano solo loro, i Quattro Mori o meglio i tre bianchi ed un moro. Il greco, il turco, l’arabo con tanto di storie e di nomi, Morgiano, Melioco e Alì, che già in barca come in prigione non prendevano in considerazione il ragazzetto nero africano, tanto da non pronunciarne il nome. L’unico Moro della statua resta l’Anonimo, non per volontà dei bianchi ma degli stessi suoi. Cose musulmane, si potrebbe dire; eppure sono in realtà l’unico tratto razzista dell’opera, simbolo labronico per eccellenza.

1 thought on “I quattro bianchi ed il Moro di Livorno

  1. bell’articolo, solo una precisazione : le fontane del Tacca non sono copie in quanto rifuse sugli stampi originali e pertanto otiginali come quelle fiorentine.

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