Milano 30 Giugno – Arrivare al cuore della musica di Bruce Springsteen non è semplice. Si è distratti da tante cose. Per esempio dalla retorica, alimentata involontariamente anche da lui stesso, che lo vuole come un cantautore patriottico tutto muscoli e sorriso, fatto a uso e consumo del maschio bianco americano con la pancetta e i capelli bianchi. O dall’idea che sia solo una delle tante rockstar un po’ bollite sopravvissute agli anni settanta e ottanta.
Bruce Springsteen, nato quasi 67 anni fa a Long Branch, nel New Jersey, è invece un pezzo importante della cultura statunitense contemporanea, un cantautore impegnato che denuncia da anni le contraddizioni del suo paese e va studiato con serietà accademica, come in effetti succede oltreoceano.
La settimana prossima il Boss, come lo chiamano i suoi fan, sarà in Italia per la prima delle tre date del suo tour italiano: suonerà per due sere allo stadio San Siro di Milano (3 e 5 luglio) e il 16 luglio si esibirà al Circo Massimo. Una scusa come un’altra per rinfrescarsi la memoria sul suo conto.
L’America, il lavoro e il sogno infranto
La musica di Bruce Springsteen ha delle coordinate geografiche ben precise, anche se negli anni si è sempre più universalizzata. Nelle sue canzoni c’è l’America di Bob Dylan e di Elvis Presley, di John Steinbeck e Woody Guthrie. È l’America di provincia, quella degli operai e della classe media, delle vittime della crisi economica, della discriminazione e dei pestaggi della polizia.
Le sue canzoni si nutrono di tante piccole storie che, prese una per una, non hanno niente di epico, ma che tutte insieme descrivono l’identità di una nazione. Con un occhio particolare ai perdenti, a quelli che non ce l’hanno fatta. Come ha detto lui stesso nel 2012 durante una conferenza stampa a Parigi: “Ho passato tutta la mia vita a valutare la distanza tra la realtà americana e il sogno americano”.
Il lavoro, ancora oggi, è un tema centrale in tutta la produzione del musicista del New Jersey. Il lavoro che intrappola i protagonisti dei suoi brani, ma che per loro è l’unica alternativa alla povertà. Ma anche il suo lavoro, dato che Springsteen vive la sua carriera con una serietà e una dedizione difficilmente riscontrabile tra i suoi colleghi. Attorno a questo tema Alessandro Portelli ha costruito un saggio molto interessante, Badlands, pubblicato nei mesi scorsi da Donzelli.
Badlands inquadra molto bene la prospettiva politica della rockstar del New Jersey, un testimone di quell’ideologia di sinistra liberal statunitense per la quale l’orgoglio patriottico e la rivendicazione dei diritti vanno di pari passo. Una cosa un po’ aliena rispetto alla nostra prospettiva europea.
Giovanni Ansaldo (Internazionale)
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