Franca Valeri confessa con fierezza la sua milanesità

Cultura e spettacolo

Milano 6 Luglio – Riportiamo l’intervista rilasciata a Massimiliano Chiavanne de Il Giorno da Franca Valeri che il 31 luglio compirà 95 anni. Un tempo infinito a prendere a calci con garbo e l’arte dello sberleffo la vita. Irridente, i suoi personaggi hanno l’intelligenza ironica di chi conosce l’animo umano, hanno lo sguardo di benevolenza di chi è ispirato dal cuore, hanno la preziosità di un talento unico e raro. Ancora in scena, con qualche tremore fisico, ma con la lucidità dell’arte che non conosce il tempo che passa. Franca Valeri e la sua milanesità nei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, a Milano

 Franca Valeri, nome d’arte di Franca Norsa, nata a Milano il 31 luglio di qualche anno fa. Deve avere un baule pieno di ricordi. Da dove cominciamo?
«Da via Rovani, vicino al Parco Sempione, il nostro primo indirizzo. Mio padre era ingegnere alla Breda, di famiglia mantovana. La mamma, invece, era di Pavia. Ero molto piccola ma ricordo ancora un negozio di giocattoli vicino casa, che chiamavamo il belèratt, il giocattolaio in milanese. Facevo di tutto per passarci davanti. In seguito ci trasferimmo in via della Spiga».

Chissà che casa!
«Aveva due ingressi e due numeri civici: 24-26. I miei primi sei anni furono pieni di avvenimenti: cambiammo indirizzo e i miei mi portarono per la prima volta alla Scala a vedere Il Trovatore. L’opera mi piacque subito. Non capivo molto, ma vedere il sipario, le scene, i cantanti e poi la musica che ha avuto su di me sempre un potere irresistibile: mi sembrava di aver varcato la soglia di un mondo migliore».

E la vita milanese intanto scorreva…
«Sì, ma di lì a pochi anni, sebbene molto giovane cominciai a rendermi conto di quanto fosse elegante Milano. Ho sempre vissuto in centro, la parte periferica la conosco poco. Ma ricordo che negli anni ’30-’40 nel cuore della città c’erano botteghe di artigiani favolosi: muratori, tappezzieri, falegnami ma anche piccoli negozi. Avevamo tutto a portata di mano, purtroppo poi si sono trasferiti altrove».

Anche voi?
«Sì, in via Mozart, la mia via preferita».

Il motivo?
«Ci siamo andati nel 1935, quando avevo 15 anni, lì ho vissuto l’adolescenza. Abitavamo al n. 2, al quarto piano. Era e resta una delle vie più chic di Milano con delle case meravigliose. La nostra aveva un giardino e una volta il mio gattone Mingo cadde giù. Credevo che fosse morto oppure scappato perché non riuscivo a trovarlo. Poi apparve e tutto finì bene».

Intanto arrivò il Fascismo, le leggi razziali, la guerra. E lei è ebrea.
«A Milano a parte il Fascismo la vita procedeva benissimo. Io andavo a scuola al liceo Parini, con la mia migliore amica Silvana Mauri Ottieri, nipote di Valentino Bompiani. Era romana, ma di una romanità raffinata, spiritosa e intelligente. Ci trovavamo in piazza Cavour, prendevamo il tram numero 2 che ci portava al liceo in corso Garibaldi. Il Parini di volta in volta veniva trasferito in diverse vie in attesa che fosse costruita la sede di via Goito, dove poi è rimasto. A scuola eravamo bravissime, non solo io e Silvana, ma anche tante altre. Poi, però, la mia famiglia si smembrò».

Cosa accadde?
«Mio padre e mio fratello Giulio nel 1940 ripararono in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni. Io e mia madre andammo in campagna, poi tornammo a Milano. Lei non temeva nulla perché era cattolica. Qui ebbi la dimostrazione del coraggio dei milanesi».

Perché?
«Un impiegato del Comune, a rischio forse della sua vita, ma comunque di guai certi, mi rilasciò una carta di identità falsa, in cui risultava che ero figlia di mia madre, ma di padre sconosciuto. Così potemmo restare in città, senza paura che mi arrestassero. Il 29 aprile 1945, i corpi di Mussolini, la Petacci e gli altri furono portati a Piazzale Loreto. Era una domenica di sole. Io decisi di andare. Mia madre non voleva, aveva paura, ma ho sempre avuto un carattere molto determinato. Vedere i tiranni appesi in giù mi diede una grande gioia. Pensai: giustizia è fatta».

A Milano mosse i primi passi nello spettacolo, facendo le imitazioni?
«Pardon, le mie non sono mai state imitazioni, ma riproduzioni di caratteri. Le facevo in famiglia e con le amiche: la vecchia marchesa, la milanese diciottenne, l’impiegata. Tutti quei caratteri che poi sono diventati i miei personaggi. La mia umanità femminile, da Cesira la manicure alla signorina snob, è tutta nata a Milano e al Nord Italia, fatta eccezione per la Sora Cecioni».

E il suo debutto milanese quando avvenne?
«Al teatro Olimpia, che allora era in Foro Bonaparte. Era il 1946. Ebbi una piccola parte, quella di una sarta in una commedia borghese di cui non ricordo il titolo allestita dalla compagnia estiva capeggiata da Ernesto Calindri. L’anno dopo mi trasferii a Roma».

A Milano ci torna solo per lavoro?
«No, anche per la famiglia. Ho 3 nipoti figli di Giulio e otto pronipoti. Ritrovo Milano come l’ho conosciuta, seria e piena di fermento. E poi è una città speciale, perché è quella dove sono nata».

E questo mese festeggerà il suo compleanno.
«Saranno 95 estati, perché sono del Leone. Un numero bellissimo».

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