C’è chi la chiama “tradizione di lotta”, chi la giustifica con ricordi di fabbrica degli anni Settanta. Ma la verità è che non siamo più nell’Ottocento. I magazzini non si svuotano il venerdì, i camion non restano fermi nei piazzali perché i lavoratori si assentano: oggi la logistica gira 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e il “venerdì nero” dei sindacati non fa saltare nessun ciclo produttivo.
Diciamolo chiaro: scioperare di venerdì, nel 2025, ha lo stesso effetto economico di una gita fuori porta.
Come si chiama, infatti, stare a casa dal venerdì alla domenica? Ah, sì: weekend lungo.
E non serve un master in relazioni industriali per capire che la scelta non ha nulla di eroico né di storico: è solo comoda. Se “tanti poi lavorano anche di sabato e domenica”, come ammette chi difende questa prassi, allora perché non si sciopera di sabato e domenica? Forse perché nel fine settimana c’è da andare al lago, allo stadio o al centro commerciale?
Sì, è vero, chi sciopera perde un giorno di paga. Ma guarda caso è molto più facile convincere i lavoratori a rinunciare a uno stipendio di venerdì o di lunedì, quando la prospettiva di un ponte lungo rende tutto più digeribile.
Altro che “giornata di lotta”. Quella che viene raccontata come una tradizione militante è, nella realtà, una tradizione pigra. E a furia di giustificarla, certi giornalisti finiscono per scrivere articoli che non sono nemmeno militanza: sono solo voglia di farsi del male.

Giornalista pubblicista, opera da molti anni nel settore della compliance aziendale, del marketing e della comunicazione.