Questa volta il mio sguardo si è fermato su un’opera che non consente vie di fuga. Al centro, il noto volto della giovane donna afghana, allora immortalato da Steve McCurry, dallo sguardo magnetico, incorniciato da un velo rosso. La superficie è tutta screpolata, come un manifesto affisso e strappato mille volte. Ai margini, un brulicare di altre figure femminili (sante, dive del cinema, madri rinascimentali, icone pubblicitarie) si sovrappongono in un collage di carta lacerata e colori saturi.
È un atlante di corpi femminili, ma soprattutto di ruoli: la martire, la madre, la seduttrice, la ragazza di strada, la musa. Sharbat Gula, la donna centrale, invece, non è un “ruolo”; lei è un individuo, un soggetto. Proprio per questo è anche il punto più ferito dell’opera; lo strappo corre su di lei come una mappa di cicatrici.
Guardando quel volto, è difficile non pensare che la violenza contro le donne viva innanzitutto qui ovvero nelle crepe tra l’immagine che la società pretende e la vita concreta delle persone. Il collage di Innocenti mostra un femminile sovra-esposto e frammentato; al centro, una persona in carne ed ossa che prova a resistere a tutte le narrazioni che la vorrebbero muta, conciliante, disponibile.
La tela è un promemoria visivo di queste fratture.
Se si passa dallo studio dell’artista alle aule di giustizia, il panorama non è meno complesso, ma oggi è più leggibile di qualche anno fa.
Negli ultimi tempi il legislatore ha stratificato interventi importanti: dal “Codice Rosso” alla recente legge 168/2023, che accelera i procedimenti, rafforza le misure cautelari, amplia gli strumenti di protezione ed introduce forme di ristoro anticipato per le vittime. Il tutto sullo sfondo della Convenzione di Istanbul e della nuova direttiva europea sulla violenza contro le donne, che impongono agli Stati obblighi positivi di prevenzione, protezione e punizione. E da ultimo, il 12 novembre scorso, l’approvazione dell’emendamento da parte della Commissione Giustizia della Camera nell’ambito dell’esame, in sede referente, della proposta di legge in tema di “Modifica dell’articolo 609-bis del codice penale in materia di violenza sessuale e di libera manifestazione del consenso”.
Parallelamente, la giurisprudenza sta facendo passi decisivi.
Le Corti cominciano a parlare esplicitamente di “logica di sopraffazione patriarcale” nei femminicidi, abbandonando la comoda retorica del “raptus”. Nel caso di Giulia Cecchettin, ad esempio, l’omicidio è stato letto come reazione alla libertà di autodeterminazione della giovane donna.
La violenza alla persona non è più confinata al livido; la Cassazione e i Giudici di Merito riconoscono come maltrattamenti anche condotte di controllo, isolamento economico, svalutazione sistematica, clima familiare umiliante verso partner e figli. La costrizione passa anche dai conti correnti e dalle parole.
La Corte europea dei diritti dell’uomo richiama l’Italia quando minimizza o non previene condotte reiterate, ricordando che la violenza domestica non è un “conflitto privato”, bensì una violazione dei diritti fondamentali.
Non mancano, naturalmente, le zone d’ombra. Alcune decisioni – come quella che, nel caso di Lorena Quaranta, invita a riesaminare le attenuanti generiche valutando lo stress da pandemia – producono un forte rumore simbolico ovvero la percezione, da parte dell’opinione pubblica, che le vite delle donne possano ancora essere ridimensionate da contesti emergenziali, fragilità dell’autore, “particolari condizioni personali”.
Guardando l’opera di Innocenti, dopo aver ripercorso norme e sentenze, l’impressione è che il diritto stia lentamente provando a fare ciò che fa l’artista: ricomporre un’immagine a partire da una materia lacerata.
E come operatore del diritto mi trovo a muovermi dentro questo collage, rilevando che ci sono strumenti più robusti per intervenire. Anzitutto una giurisprudenza che, sempre più spesso, chiama la violenza con il suo nome.
Concludo le mie riflessioni evidenziando che se tribunali, forze dell’ordine, avvocati, servizi sociali e politica assumono davvero la violenza di genere come questione strutturale – non come emergenza episodica – allora lo sguardo della donna al centro del quadro può cambiare. Da sguardo che teme il prossimo colpo, a sguardo che reclama, senza più chiedere permesso, il proprio posto integro nella vita collettiva.
Avv. Simona Maruccio

Giornalista pubblicista, opera da molti anni nel settore della compliance aziendale, del marketing e della comunicazione.