Il Comune di Milano annuncia un premio produttività di 2.000 euro lordi per ciascuno dei suoi 13mila dipendenti. Un intervento che costa 25 milioni di euro e che, secondo gli assessori Cappello e Conte, rappresenterebbe un “segno di attenzione” e una “risposta al caro vita”.
Ma, se guardiamo oltre la comunicazione politica, la realtà è un’altra: si tratta di un palliativo. Una tantum che non cambia le condizioni strutturali dei lavoratori pubblici in una città dove vivere costa in media il 30–40% in più rispetto alla gran parte del resto d’Italia.
Un premio da 2.000 euro, al lordo, equivale a poco più di 100 euro netti al mese. Una cifra che viene divorata da un solo aumento d’affitto, o da un paio di bollette energetiche. Non risolve nulla rispetto alla sproporzione ormai evidente tra stipendi pubblici (bloccati da decenni) e costo della vita metropolitano.
Milano ha bisogno di un dibattito serio — e nazionale — sul tema delle gabbie salariali, intese non come un ritorno a modelli iniqui del passato, ma come un adeguamento territoriale dei salari al costo reale della vita. Un principio di equità, non di divisione: lo stesso lavoro deve garantire lo stesso potere d’acquisto, non lo stesso importo nominale.
Senza un meccanismo strutturale di questo tipo, continueremo a compensare con premi e bonus una disuguaglianza crescente: tra chi lavora al Nord e al Sud, ma anche tra chi lavora nel pubblico e nel privato, e tra chi vive dentro e fuori dalle grandi città.
Il Comune di Milano ha fatto un piccolo passo, ma finché non si potrà parlare liberamente di gabbie salariali — o di un loro equivalente moderno — nessuna busta paga riuscirà davvero a reggere l’urto del caro-Milano.

Giornalista pubblicista, opera da molti anni nel settore della compliance aziendale, del marketing e della comunicazione.