Conspicuous Tourism (Igtourism) il viaggio come ostentazione e la sfida di ritrovare senso

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Dal consumo vistoso di Veblen ai social che alimentano l’economia dell’invidia, il turismo contemporaneo rischia di ridursi a spettacolo e overtourism. Ma il vero lusso non è la foto condivisa: è l’esperienza sostenibile e culturale che allarga lo sguardo, nutre la mente e restituisce autenticità ai luoghi.

Il nostro tempo sembra aver sostituito il valore dell’esperienza con quello della rappresentazione. Non conta più ciò che viviamo, ma ciò che siamo in grado di esibire. L’allenamento diventa performance, l’abito un manifesto identitario, il calice di vino un segnale di appartenenza. Anche la cultura, un tempo ricerca lenta e silenziosa, viene ridotta a scena: un libro esibito, una mostra raccontata più per la foto che per l’intensità vissuta.

In questa estetica dell’apparire, il viaggio è il terreno privilegiato: non più percorso di conoscenza, ma prova sociale da immortalare. Le spiagge più belle, i borghi più autentici, i panorami più fragili diventano sfondi da replicare all’infinito, svuotati della loro essenza e saturati dall’overtourism.

Dal consumo vistoso al turismo ostentativo

Alla fine dell’Ottocento, Thorstein Veblen introdusse il concetto di conspicuous consumption, il consumo vistoso, per descrivere l’uso di beni e servizi come strumenti di distinzione sociale. Più di un secolo dopo, il suo pensiero si traduce perfettamente nel turismo contemporaneo. Non si viaggia per conoscere, ma per dimostrare di esserci stati. Il viaggio diventa capitale simbolico: ciò che conta non è vivere l’esperienza, ma esibirla.

Luxury Tourism ≠ Conspicuous Tourism

Spesso confusi, i due fenomeni hanno in realtà radici molto diverse. Il turismo di lusso si presenta come un’estensione del turismo esperienziale: privilegia la qualità, l’autenticità, la raffinatezza e la riservatezza. È il lusso discreto di un soggiorno in un relais storico con degustazione privata, di una visita notturna alla Cappella Sistina lontano dalle folle, o di un itinerario costruito su misura tra vigneti e monasteri. Un lusso che parla al viaggiatore, non al pubblico.

Il turismo ostentativo, al contrario, vive di pura esibizione. Conta il prezzo e la spettacolarità dell’esperienza: l’hotel a 10.000 euro a notte, la cena da 2.000 euro a Saint-Tropez, il lettino a 500 euro a Mykonos, l’arrivo in elicottero a Capri. Qui il valore non è nella profondità del vissuto, ma nella sua spendibilità sociale, nella possibilità di mostrarlo e condividerlo. È la stessa logica che domina anche altri ambiti della vita: la corsa a partecipare o a organizzare eventi che siano compleanni, matrimoni o feste private, dove l’importante non è celebrare ma sorprendere, spendere, esibirsi. Tutto deve diventare spettacolo, show, performance da immortalare e condividere, spesso al di là delle possibilità economiche reali di ciascuno.

Come sottolinea Pamela N. Danziger, fondatrice di Unity Marketing e riconosciuta tra le massime esperte mondiali di consumi di lusso, “Luxury without display is luxury; luxury with display becomes conspicuous consumption.”(pameladanziger.com).
Per Danziger, il lusso autentico non coincide con il prezzo o con l’etichetta, ma con il valore percepito dal consumatore: unicità, esperienze su misura, servizi raffinati. Quando il lusso si riduce a ostentazione, perde spessore e si trasforma in spettacolo superficiale.

Identità, riconoscimento e social media: l’amplificatore del turismo ostentativo

Il turismo ostentativo risponde a un bisogno collettivo di riconoscimento: nelle società contemporanee l’identità si costruisce attraverso ciò che si mostra, non attraverso ciò che si conosce. Come osserva Sharon Zukin in The Cultures of Cities (2021): “The urban and touristic experience is increasingly curated for display, rather than for knowledge or immersion.”

I social media hanno radicalizzato questa dinamica. Instagram e TikTok hanno reso il conspicuous tourism virale: hashtag come #luxurytravel o #vacationmode hanno trasformato mete come Santorini, Dubai o Positano in icone globali.

Uno studio pubblicato su Tourism Management Perspectives conferma come la percezione di esperienze ostentative online alimenti viaggi impulsivi: “Tourists are more likely to experience impulsive travel intention when they perceive shared travel experiences as conspicuous”. Si parla così di una vera e propria “economia dell’invidia”: non si viaggia per sé, ma per stimolare desiderio – o frustrazione – negli altri.

Vuoto culturale, desertificazione dell’esperienza e impatti sulle comunità

Il conspicuous tourism prospera dove manca un retroterra culturale. Se nel Settecento il Grand Tour formava élite intellettuali, oggi le mete si riducono a scenografie fotogeniche, consumate più con lo smartphone che con la mente.

Come scrive John Urry in The Tourist Gaze:“The tourist gaze is selective, it privileges what can be captured and displayed over what canbeunderstood.”Pubblicato per la prima volta nel 1990, The Tourist Gaze è una lettura essenziale, una delle prime analisi sociologiche complete del turismo e, dopo tre edizioni rimane probabilmente la più influente nel delineare come lo sguardo del turista sia plasmato da dinamiche sociali, culturali e mediatiche.

Il risultato è paradossale: più viaggiatori, meno cultura. I luoghi smettono di essere vissuti e diventano set da fotografare. A Ibiza, per esempio, gli affitti sono ormai proibitivi per i residenti perché gran parte delle abitazioni viene destinata al turismo di lusso e agli affitti brevi. A Venezia la stessa dinamica ha portato allo spopolamento del centro storico, trasformato in vetrina per visitatori e sempre meno in città abitata. A Mykonos, la movida ostentativa e i beach club esclusivi hanno oscurato le radici culturali e religiose dell’isola, ridotta a brand internazionale della notte. Capri e Positano sono diventati set permanenti per yacht e selfie. la Scala dei Turchi in Sicilia o Maya Bay in Thailandia, mete rese virali da social e cinema, hanno dovuto limitare o chiudere l’accesso per danni ambientali, travolte da un’affluenza che ne minacciava la stessa sopravvivenza.

In questo scenario si inserisce la deriva più grottesca: l’arrivo di influencer che, con le loro folle di follower disinformati, trasformano luoghi fragili in fenomeni da baraccone. Non portano cultura né valore economico duraturo, ma confusione, sporcizia e consumi superficiali. Alla fine, sono esibizionisti che cercano di mostrare ciò che non sono, alimentando un turismo che spettacolarizza senza restituire nulla. Non è un caso che negli ultimi anni in Italia si siano moltiplicate le polemiche contro l’invasione di comitive organizzate in cerca dello scatto perfetto. Così i luoghi, promossi come simboli di bellezza esclusiva finiscono per perdere proprio ciò che li rendeva desiderabili: il silenzio, la natura incontaminata, l’autenticità. La logica dell’ostentazione li svuota dall’interno, trasformandoli in prodotti standardizzati, in cui il viaggiatore cerca soltanto la prova fotografica di essere stato “lì”.

Verso quale futuro?

Il conspicuous tourism è fragile e insostenibile: vive di mode passeggere, consuma risorse ambientali in modo spropositato e svuota i luoghi della loro identità. L’unica strada percorribile per il futuro del turismo è legare l’esperienza alla sostenibilità e alla cultura, non all’ostentazione.

Sostenibilità significa ridurre l’impatto ambientale e restituire equilibrio alle comunità che ospitano i viaggiatori. Cultura significa riscoprire il senso originario del viaggio: un atto di conoscenza, di scambio, di crescita personale.

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