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Francesca, il Canada e le domande che non insegna l’AI

Attualità

“ChatGPT, che tempo fa a Vancouver?”

La voce di mia figlia è ferma, quasi professionale. Il sistema risponde con tono neutro: “A Vancouver oggi ci sono 19 gradi, cielo coperto. Possibilità di pioggia nel pomeriggio.”

Francesca annuisce e continua a prendere appunti sul suo quaderno blu, quello con le pagine disordinate e i disegni fatti a penna nei margini. Tra un mese partirà per il Canada. Un anno di studio all’estero, la prima volta in cui si allontana davvero da casa, dalla scuola, dalla sua routine di sempre. Ha sedici anni e un’intelligenza vivace, fatta di intuizioni e di dubbi. Si muove tra documenti, valige, esercizi di inglese con la determinazione di chi sa che sta per cambiare orizzonte. Più di tutto, la osservo mentre cerca appigli tra due modi diversi di apprendere: quello digitale, che risponde in tempo reale e corregge in automatico, e quello relazionale, fatto di pause, sguardi e scelte non previste.

Da settimane Francesca alterna l’uso di Aurora, un tutor digitale integrato nel suo percorso di preparazione linguistica, alle lezioni con Federica, un’insegnante “in carne e ossa” che ha imparato più dai suoi viaggi che dai manuali. Con Aurora, Francesca si esercita con sicurezza: pronuncia, listening, simulazioni di dialogo. L’interazione è fluida, reattiva, pulita. Tuttavia è quando esce da quella bolla che la vedo davvero imparare.

“Hai fatto il dialogo in inglese oggi?” le chiedo.

“Sì, però con Federica è stato diverso. Mi ha chiesto cosa sogno di fare in Canada. Non avevo la parola pronta. E abbiamo parlato mezz’ora del fatto che dream non basta a tradurre sperare.”

Nel guardarla, mi tornano in mente domande che da tempo mi accompagnano e che probabilmente sono di molti: che tipo di sapere stiamo costruendo, se iniziamo a fidarci solo delle risposte ben confezionate? E che fine fanno le domande lente, quelle che chiedono tempo, incertezza, presenza? A mio parere le risposte, vanno oltre la questione tecnica. È qualcosa che tocca le relazioni, l’educazione, la libertà di pensare con la propria testa.

Nel mio lavoro, ogni giorno mi confronto con i risvolti dell’intelligenza artificiale: trasparenza, equità, controllo, AI literacy.

Ma è ascoltando mia figlia che tutto diventa concreto. Si tratta della sua voce, di quello che imparerà a chiedere, a credere, a rifiutare. Prima che chiuda le valige, tra i vestiti piegati e i libri sottolineati, ho deciso di lasciarle un biglietto. Niente di formale. Solo qualche riga scritta a mano, per quei momenti in cui né l’AI né gli adulti sapranno rispondere.

C’è scritto: Non cercare di essere perfetta. Sii curiosa, sii viva, sbaglia con grazia e muoviti con fiducia. Il tuo modo di vedere il mondo non è un limite, è un dono.

Non l’ha generata un chatbot.

Non è stata revisionata da un assistente virtuale.

È una frase imperfetta. Ma è mia.

E so che lei capirà la differenza.

L’intelligenza artificiale può insegnare molte cose. Ma non sa fare compagnia a chi ha solo bisogno di essere ascoltato. Non può offrire la complicità di un dubbio condiviso. Per questo credo che alfabetizzarsi all’AI significhi, pure e soprattutto, imparare quando serve una risposta e quando serve una voce. E la voce, quella vera, la riconosci sempre: è la voce che resta anche quando lo schermo si spegne.

Avv. Simona Maruccio

simona@maruccio.it

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