Uno studio legale ha ricevuto una comunicazione PEC apparentemente inviata dall’Agenzia delle Entrate. La segretaria, in buona fede, ha aperto l’allegato: un file Excel infetto. In pochi istanti, il malware si è diffuso nella rete interna, cifrando il database clienti, i fascicoli digitali e gli accessi al gestionale. Il backup non era aggiornato, l’autenticazione a più fattori mai attivata. Risultato: cinque giorni di fermo operativo, un danno economico diretto di circa 30.000 euro e, soprattutto, un danno reputazionale difficilmente calcolabile.
Nel diritto, l’errore può essere sanato. Una svista si corregge con un’istanza, una riassunzione, una remissione in termini.
Nel digitale no. Un clic incauto, un link aperto da smartphone, una telefonata che induce a rivelare codici o credenziali sono sufficienti per innescare una catena di eventi potenzialmente disastrosa: dati compromessi, responsabilità civili e penali, blocco delle attività, danni patrimoniali.
Ecco perché, mentre nel diritto l’errore può trovare rimedio, nella cybersicurezza ha un costo immediato, diretto e spesso irreversibile.
A questo punto, una domanda diventa inevitabile: quante organizzazioni oggi sono davvero preparate non solo a reagire ad un attacco informatico, ma soprattutto a prevenirlo?
Troppo spesso ci si affida a una falsa sicurezza fatta di procedure scritte, certificazioni ISO e software installati, dimenticando che la prima difesa è sempre l’essere umano. A nulla serve adottare un sistema ISO 27001 se chi lavora all’interno non è in grado di distinguere un’email legittima da una malevola. Le policy non bastano se non vengono comprese, interiorizzate e trasformate in abitudini quotidiane.
Quello che serve davvero è un approccio pragmatico e strutturato: formazione continua e mirata, simulazioni di attacco (come le campagne di phishing simulato), audit regolari sulle misure di sicurezza, aggiornamenti costanti, adozione obbligatoria dell’autenticazione multifattore per tutti gli accessi critici, backup automatici, testati e custoditi offline. È una questione di metodo e di cultura.
Chi esercita oggi una professione legale non può più limitarsi a conoscere le norme. Deve essere un presidio attivo della sicurezza digitale per clienti, collaboratori e colleghi.
Significa informare sulle responsabilità digitali, sensibilizzare alla custodia delle credenziali, integrare la cybersecurity nei modelli organizzativi, proporre clausole contrattuali che impongano obblighi di protezione dei dati, valutare i rischi cyber nei contratti con fornitori e partner tecnologici.
L’errore umano è la prima vulnerabilità in ogni sistema. Può diventare anche la prima linea di difesa, se accompagnato da consapevolezza, metodo e rigore.
Non basta sapere che i rischi esistono. Occorre saperli riconoscere, evitare, gestire.
E questo vale per tutti: pubbliche amministrazioni, studi professionali, imprese familiari, PMI, multinazionali. Ogni realtà, a prescindere dalla propria dimensione, deve assumersi l’obbligo di una cultura digitale diffusa. Perché nella cybersicurezza, chi sbaglia paga. Sempre.
Avv. Simona Maruccio

Giornalista pubblicista, opera da molti anni nel settore della compliance aziendale, del marketing e della comunicazione.