Marcello Veneziani: Liberiamoci dai nuovi farisei

Attualità

Disarmare le parole e liberare i giornalisti, ha detto Papa Leone XIV in difesa della libertà di stampa e della pace. Parole sante, non c’è che dire, e pertinenti alla situazione in corso. Ma lasciate che io provi a darne un’altra lettura, in altri sensi e su altri piani per affrontare il discorso esattamente a rovescio. Facciamo l’ipotesi che disarmare le parole voglia dire renderle innocue, inefficaci, incapaci di criticare il potere; e facciamo l’ipotesi che liberare i giornalisti non voglia dire – come intendeva il papa, giustamente nel suo caso – non mettere in galera i giornalisti che fanno il loro mestiere e in alcuni paesi non vengono tollerati, ma voglia significare la situazione opposta: liberare i giornalisti in questo caso vuol dire liberarli dalla paura di dire la verità, la tendenza al conformismo, la servitù volontaria, le cataratte dei pregiudizi prefabbricati che abitualmente somministrano. Si, facciamo il contropelo all’informazione.

A che serve la stampa se rovescia sul lettore un fiume di retorica e di parole lisce, innocue, prive di asprezza e di sapore, che non urtano e non urticano nessuno, che assecondano il mainstream, anzi servono a propagarlo? Non aiuta a vedere la realtà con senso critico, a coltivare un’opinione su ciò che ha davanti e intorno, si limita a raccontare l’acqua fresca o peggio l’aria fritta. E quando si tratta di orientare l’opinione pubblica, la stampa si fa altoparlante del sovrastante potere ideologico ed economico, politico e finanziario. In questo modo la stampa e la sua sorella in video diventano solo una fabbrica del consenso col riciclaggio delle opinioni “corrette”. Non è di questo che soffre oggi l’informazione e perciò subisce un tracollo di credibilità e di utenti? Non è questo suo rispecchiare il potere più che la realtà, di sostituire il vero con ciò che è corretto, la vigilanza critica con la sorveglianza culturale (in sigla woke), il male che affligge il mondo dei media? E da dove nasce la fuga nei social e nella rete faidate, o ancor peggio il rifugio nell’ignoranza e nel black-out, se non dalla diffidenza indotta da questo suo ridursi a megafono di interessi e poteri calati dall’alto piuttosto che specchio di realtà ed evidenze colte dal vivo, dal basso, dal mondo?

La stampa per sua missione non è liscia ma ruvida; non rassicura semmai semina inquietudini. Se ha avuto una funzione l’informazione nella crescita civile e culturale dei popoli, o quantomeno delle minoranze che leggevano e di riflesso sui popoli, ciò è dovuto proprio alla sua funzione non disarmata e disarmante, da oppio dei popoli, per intenderci; ma al contrario di denuncia, dubbi, scoperte di ciò che si vuol nascondere, rivelazioni dell’altra faccia della realtà. Diverso è criticare le fabbriche dell’odio, come spesso si riducono alcune fonti d’informazione; o mettersi al servizio di nuovi sciagurati bellicismi, come in Europa è capitato di recente: su questo ha ancora ragione il papa. Ma diverso è spuntare l’arma della stampa, occultare, sedare, cancellare per rendere le cose innocue, anche se non innocenti.

Quando la funzione critica dell’informazione viene a mancare, la responsabilità sarà pure di un sistema, di una committenza editoriale, dei poteri che pilotano i media; ma alla fine chi ne risponde direttamente in credibilità e onestà etica, deontologica e civile, è lui, il giornalista. Per questo, si tratta davvero di liberare i giornalisti, di richiamarli cioè al coraggio della verità e della responsabilità. Con la precisa avvertenza che dire la verità non vuol dire possederla, o pretendere di averne il monopolio e l’accesso riservato: dire la verità è raccontare tutto con onestà, aver passione di verità, non nascondere nulla, non subordinare la realtà delle cose all’interesse ideologico, merceologico, economico di chi scrive o della fonte mediatica per cui scrive.

La grande lezione di giornalismo di cui abbiamo bisogno, anche per ripristinare quel circuito di fiducia tra il cittadino e i media, parte proprio dove finisce l’appello di Papa Leone XIV, e tocca l’altro emisfero dell’informazione, rispetto a quello da lui toccato. Le ideologie sembrano sepolte nel secolo scorso e invece una pervasiva, strisciante ideologia ammorba il linguaggio, il trattamento delle notizie e dei soggetti, i modelli di riferimento, gli stili di vita e gli orientamenti di consumo. Perfino gli influencer diventano veicoli di questa ideologia dominante, anche se non trattano di politica ma si occupano di tendenze, gusti, costumi e consumi.

Lasciamo stare la solita tiritera sull’egemonia culturale della sinistra, chiamiamola in altro modo: c’è una cappa ideologica che ci dice cosa dobbiamo pensare, come e di chi, e cosa no, con pochissimi margini di dissenso. È una filiera che dall’informazione va al cinema, al teatro, alla musica, al gergo corrente. C’è un continuo gioco di ammissione ed espulsione: la società che predica l’inclusione genera di continuo outsider, gente che viene ricacciata fuori dal cerchio di rispettabilità, esclusa perché non conforme a quei paradigmi. Questo contribuisce a creare una vistosa diminuzione di utenti, lettori, spettatori, esattamente come sul piano politico genera astensionismo e disaffezione. Come definire questo ceto di potere senza ricorrere alle solite categorie come la sinistra? Chiamiamoli i nuovi farisei, anche per compiacere il papa. Gesù Cristo li chiamava “sepolcri imbiancati”. Sono gli ipocriti, i falsi liberatori, i conformisti, che servono il potere e se ne servono. Liberaci da loro, amen.

Marcello Veneziani

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