Come membro della Commissione per il Paesaggio di Milano ho settimanalmente occasione per riflettere, assieme agli altri attenti colleghi, sulle proposte progettuali dei professionisti che operano nelle zone particolarmente sensibili, a vario titolo, della città.
La gran parte delle volte, si tratta di proposte piuttosto dignitose e perfino particolarmente brillanti: peraltro, quelle che vengono bocciate, non risultano infatti compatibili con i “principi” (1) che sono stati formulati e diffusi a tale riguardo dalla Commissione proprio per agevolare i progettisti nel compito impegnativo di contribuire allo sviluppo di una condivisibile immagine di Milano.
Ed effettivamente, per molti versi, i progettisti e le strutture amministrative della città potrebbero infatti concorrere virtuosamente all’evoluzione del paesaggio urbano secondo una linea di pensiero che privilegia comunque le sue peculiarità di luogo ampiamente consolidato, caratterizzato da un suo specifico genius loci.
Tutto ciò premesso, mi siano consentite alcune sintetiche riflessioni su fenomeni che, anche se piuttosto raramente, la Commissione per il Paesaggio tratta e alle quali, peraltro, io stesso ho più volte accennato: esse riguardano comportamentalità che sembrano sfuggire totalmente alle suddette logiche virtuose più sopra ricordate.
Mi riferisco, ad esempio, alla scandalosa proliferazione dei pali per la segnaletica, dei paletti dissuasivi per il traffico o dell’aggressiva grafica “imposta” dal Codice della Strada: nella loro ineluttabile ridondanza, il combinato disposto di tutte quelle realtà solo apparentemente necessarie, offusca il paesaggio urbano alla scala quantomeno pedonale e veicolare. La moltitudine di messaggi dettati da uno zelo amministrativo degno di miglior causa contribuisce certamente a nascondere la qualità architettonica percepibile delle quinte urbane. Oltre a ciò, quel che è peggio, tale realtà ingenera nei cittadini il sospetto di un eccesso burocratico e determina un profondo disamore per lo spazio pubblico in quanto scena dalla vicenda umana, nel senso più ampio del termine.
Mi riferisco, poi, allo scempio sistematico delle facciate delle case, dei muri, dei monumenti e delle attrezzature da parte di un esercito di impuniti mascalzoni imbrattatori che si nascondono spesso dietro lo
scudo di cosiddetti “circoli sociali”. Diversamente dagli artisti specializzati nella realizzazione di murales, spesso anche piuttosto suggestivi, anonimi “cani sciolti” di una improbabile anarchia da strapazzo ovvero da squadracce di pseudo artisti protetti da confraternite pseudo sociali devastano sistematicamente luoghi dignitosissimi che certo non meritano tanto… accanimento.
Occorre davvero reagire!
Secondo norme da anni sistematicamente disattese, ogni realizzazione architettonica, soprattutto se destinata a funzioni pubbliche, dovrebbe comportare una spesa destinata all’integrazione di opere artistiche nel contesto edificato. In passato, quella norma ha dato ampia dimostrazione di intelligenza; in tempi più recenti, qualche “Solone” ha invece sentenziato che la stessa architettura non ha bisogno di ulteriori contributi estetici in quanto essa stessa “arte” (sic!).
Personalmente, non credo davvero che l’architettura sia una arte, bensì una disciplina professionale analoga a molte altre attività liberali; pertanto, l’integrazione di espliciti contributi artistici alle costruzioni è da considerarsi tutt’ora un’utile occasione per rendere il nostro contesto abitativo sempre più significante.
A tal proposito, può essere utile sottolineare che l’intenzione di sovrapporre murales o decorazioni, soprattutto sulle facciate “cieche” delle costruzioni esistenti, non rientra nella suddetta fattispecie e genera raramente quell’unisono di architettura-arte che il legislatore aveva a suo tempo preconizzato e voluto incentivare.
Esistono certamente muri che si prestano ad ospitare un gradevole mural, anzi, talora sembrano richiederlo esplicitamente. Mi riferisco specialmente ai luoghi amorfi e disadorni di cui la città, peraltro, è piena.
In realtà, la facciata cieca di un edificio non è necessariamente la “tela” sulla quale dipingere messaggi artistici armonicamente interattivi con il contesto e quindi coerenti con questo: infatti, soprattutto i messaggi di carattere pubblicitario (privi del consenso o quantomeno della collaborazione con l’autore dell’edificio o delle Autorità che vigilano sulla qualità urbana) sono quasi sempre inaccettabili.
Sia chiaro: personalmente non ho nulla contro la pubblicità applicata ai muri della città e, in un certo senso, mi dispiace perfino che, in nome di preconcetti ideologici nei confronti delle non sufficientemente nobili attività commerciali, la pubblicità luminosa che si sviluppava sulla facciata del Rebecchino (l’edificio dirimpetto alla cattedrale di Milano, una sorta di “radice quadrata” della facciata di Piccadilly Circus a Londra”) sia stata stoltamente smantellata: quantomeno essa animava la bolsa facciata che delimita, oggi, il lato occidentale di piazza del Duomo; fra l’altro, esso costituiva un ben più divertente spettacolo rispetto ai grotteschi e “provinciali” banani vi sono stati provocatoriamente piantati. Contraddicendo platealmente il saggio progetto del Mengoni, questo triviale intervento verdeggia infatti là dove era stato previsto un vero e proprio isolato atto a ridurre la dimensione dello “spiazzo abnorme” che oggi, dopo la demolizione della “manica lunga” di Palazzo Reale, sottrae all’intero Duomo il suo legittimo, anche se tardivo, slancio gotico.
Sempre a proposito del fatto che talune Istituzioni intendono applicare espressioni artistiche su realtà costruite esistenti, puó essere interessante riflettere sulla realizzazione di decori sulla pavimentazione di strade e piazze oggetto di “urbanistica tattica”: per quanto certe soluzioni grafiche possano essere intrinsecamente convincenti sotto il profilo estetico, la gran parte di quegli interventi confligge con l’indole consolidata del contesto in cui vorrebbero essere collocate e, secondo me, si possono accettare solo per brevi e saltuari periodi come si fa, ad esempio, con un mercato rionale periodico: esaurita la sua funzione, richiede infatti la sistematica ripulizia dei luoghi).
Agli albori del Terzo Millennio, non sono piú disposto a sopportare jeans strappati all’altezza dei ginocchi (come aveva fatto, un po’ per scherzo, qualche trasgressiva ma elegante modella fra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso), pantaloni artificialmente abbassati sul fondoschiena (come qualche “gentiluomo” pensó di indossare all’inizio degli anni Duemila forse per stupire i benpensanti), i piercings tribali (di cui non si conoscono convincenti motivazioni ideologiche o salutistiche) o i tatuaggi devastanti (per sentirsi opera d’arte [sic!] o per sconfiggere ingenuamente la propria nullità ovvero per épater le bourgeois all’infinito), ecc.
Infatti, un bel gioco, dura poco!
Nello stesso senso, agli albori del Terzo Millennio non sono più disposto a giustificare né tantomeno a sopportare l’insozzamento degli onesti muri delle case delle nostre città che sono preordinati al godimento di tutti, che sono la scena nella quale si svolge la vita di tutti i cittadini.
Se lo sconciamento degli ambienti comuni fosse il legittimo grido di allarme di una comunità diseredata e priva di prospettive, potrei perfino giustificare quella imbarazzante pratica; credo invece che essa sia la conseguenza vistosa di comportamenti malati, di menti progressivamente deprivate della capacità di connettere e i cui neuroni fradici sembrano fidarsi più di qualche “canna” che non della consapevolezza di dover contribuire all’innalzamento del livello qualitativo del contesto comune.
Intendiamoci, gli imbrattatori di muri non sono eroici artisti misconosciuti che propongono modelli di convivenza condivisibili (cioè migliori dalla nostra odierna) ma veri e propri malfattori: non solo, essi producono danni oggettivi al patrimonio comune ma, quel che è peggio, sembrano evidenziare la scarsa credibilità delle Istituzioni. Queste non sono infatti capaci (o non hanno voglia o interesse) di reagire con la necessaria convinzione e, quantomeno, col necessario vigore.
Ripeto, un bel gioco dura poco!
Fra gli aspetti non certo ultimi del paesaggio urbano (sui quali riflettiamo su questo numero della rivista), devo aggiungere anche la sistematica erosione (perpetrata proprio dalla stessa Pubblica Amministrazione) della “monumentalità” dei luoghi urbani.
Come giustamente continua a ripetere l’amico architetto Giuseppe Marinoni, la “sistemazione“ del soprassuolo di viale Argonne, grazie agli oneri derivanti dai lavori per la sottostante metropolitana, sottrae a quel solenne e consolidato boulevard la sua primitiva ed elegante funzione spaziale per trasformarlo in una meschina sequenza di giardinetti, spazi gioco per bambini, aree destinate alle deiezioni dei cani, piste ciclabili, ecc., ecc.
Qualcosa di simile sta avvenendo, e nessuno protesta, anche per corso Sempione: nelle intenzioni dei nostri predecessori, questo vero e proprio boulevard voleva indicare la via congiunge Milano con Parigi.
Avremo senz’altro occasione per approfondire questi due ultimi miserabili interventi che mortificano la città in nome di meschine istanze popolaresche; per il momento mi limito a ricordare quanto Carlo Emilio Gadda nel suo “Pasticciaccio brutto di via Merulana”, ebbe a dire: «viale dei Fori Imperiali mette capo a via Fregnetti: così e di tutti noi, amen».
Alessandro Ubertazzi
Nota.
1 “Criteri per la rigenerazione urbana di Milano”, documento dell’Assessorato alla Rigenerazione Urbana, Milano, ottobre 2023.
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