Il problema del Realismo nel cinema e nella cultura italiana moderna: Da “Ragazzi di vita” di P.P.Pasolini a “Non essere cattivo” di Claudio Caligari

Cultura e spettacolo

Il Realismo è un problema dibattuto fin dalla fine dell’800, quando in particolar modo in Francia e in Inghilterra si affermarono, sull’onda montante delle idee socialiste e anarchiche allora nascenti, teorie e pratiche artistiche volte a mostrare la vita nella sua quotidianità, le lotte operaie e sociali che si stavano imponendo all’attenzione dell’opinione pubblica.

Autori come Emile Zola, Charles Dickens, Jack London e altri raccontavano storie relative alla classe operaia e al proletariato della Londra e della Parigi di quel tempo. In Italia Giovanni Verga, iniziatore della corrente del Verismo, dopo un inizio letterario aristocratico in cui rappresentava la vita e le vicende delle classi alte, si spinge in Sicilia a descriverci l’esistenza quotidiana e faticosa dei pescatori di Aci Trezza, con un uso fino ad allora inedito del dialetto siciliano.

Durante il fascismo questa lezione verrà dimenticata, anche perché il fascismo avrà in spregio i dialetti a favore di una lingua unitaria di ascendenza letteraria e aulica, peraltro mai completamente assimilata dal popolo. Il cinema azzimato, alto-borghese e aristocratico praticato durante il fascismo sarà definito cinema dei “telefoni bianchi”.

Dopo la guerra col neorealismo italiano ricomincia a farsi strada l’idea di un’arte più vicina al sentire delle classi meno abbienti. De Sica e gli altri epigoni proporranno un approccio polemico ma anche di fondo bonario e deamicisiano, vagamente cattolico-progressista. Il neorealismo sarà il prodotto italiano più esportato all’estero, quello che ci rappresentò di più nelle vetrine di tutto il mondo. Di contro le avanguardie, a partire dal Futurismo e l’opera di Gabriele D’annunzio avevano distrutto il realismo a favore del fantastico, del futuristico, di una visione barocca e costruita della realtà, fino ad arrivare alla surrealtà esibita, sull’onda (mal compresa) delle teorie di Sigmund Freud, da parte del dadaismo-surrealismo.

Le posizioni di Pier Paolo Pasolini negli anni ’60 fanno presagire una nuova rivincita e riposizionamento dei linguaggi realistici. Già nella poesia “In morte del realismo”  aveva previsto un nuovo modo di descrivere il mondo e un abbandono delle vecchie, erose posizioni mantenute dai vecchi scrittori. Il realismo stava perdendo spessore di fronte all’irrealtà dei linguaggi borghesi, il linguaggio delle elites stava nuovamente facendo breccia nel sentire popolare. Prima nell’articolo “Il Neosperimentalismo” poi ne “La libertà stilistica” Pasolini descrive le secche del naturalismo e gli inutili fuochi d’artificio dello sperimentalismo avanguardistico e post-ermetico, quest’ultimo niente altro che uno sterile ripiegamento interiore autoriale e colto. Comunisti, cattolici e liberali si trovavano accomunati in questa deriva culturale comune. Questi alcuni brani dell’articolo apparso sulla rivista Officina nel 1957:

C’è stato un periodo di questa nostra storia in cui l’unica libertà rimasta pareva essere la libertà stilistica: il che implicava passività sul fronte esterno e attività sul fronte interno. Ma è chiaro che non poteva trattarsi che di una libertà illusoria, se, in realtà, l’involuzione antidemocratica fascista era effetto della stessa decadenza dell’ideologia borghese, liberale e romantica, che aveva portato all’involuzione letteraria di una ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria coscienza estetica. L’elusività, tipica via di resistenza passiva alle coazioni della realtà, assumeva così le forme dell’assolutezza stilistica, classicheggiante, per ipotassi, per grammaticalità esasperata, «ordinante dall’alto» fin nelle più esteriori e ormai convenzionali dilatazioni semantiche; e lo stesso può esser detto per le esperienze letterarie oppositrici, che fanno capo al Pascoli pregrammaticale e realista di genere, il cui sforzo linguistico era un allargamento lessicale meglio che un mutamento stilistico.

Non ci si immerge più nel fango dei quartieri poveri, la realtà diventa una realtà di laboratorio, asettica, protetta, priva di spunti destrutturanti, priva di umori, “neutra”, ripulita. Non ci si sporca più alla ricerca della verità. Pasolini si inserisce nel filone del neorealismo, ma con una sensibilità del tutto nuova. Il neorealismo pasoliniano vuole superare le secche di un certo realismo deamicisiano, di ascendenza comunista e cattolica, che era venuto alla luce nel dopoguerra. Ma il neo-sperimentalismo pasoliniano si scontra anche contro il linguaggio neo-ermetico delle avanguardie. Il neorealismo dei ragazzi di vita vuole giustapporre il dialetto parlato dei ragazzi di borgata con l’italiano medio del narratore. Pasolini opera una azione che è realista ma anche decadente ed estetizzante. Si immerge nelle borgate come un poeta decadentista, come Rimbaud o Baudelaire alla ricerca di qualcosa che la cultura borghese non possiede o ha perso. Non strizza l’occhio al popolino piccolo-borghese, ma si rivolge al sottoproletariato, alla realtà più sporca e deteriore, ai magnaccia, ai papponi, ai ladri, alle prostitute, ai giovani devianti. Il suo è di fondo un discorso sulla Diversità. In quest’ottica il realismo superficiale degli scrittori suoi contemporanei risulterà paralizzato dalle premesse bonarie, in parte socialiste e cattolicheggianti, ma anche lo sperimentalismo delle avanguardie verrà smascherato come vuota destrutturazione, sterile e pericolosa, del linguaggio. Il neo-sperimentalismo proposto dagli autori della rivista Officina è qualcosa che si situa in una posizione “altra”.

In “Ragazzi di vita” e in “Una vita violenta” il linguaggio alto letterario si ibrida con forme dialettali, e il narratore onnisciente assume per un attimo il punto di vista dei suoi personaggi, in un procedimento che prende il nome di “discorso libero indiretto”: ne deriva un impasto linguistico originale e nuovo, dove i termini dialettali vanno di pari passo con la terminologia colta, e il discorso sulla realtà non si fa mai oscuro e inattingibile come nel linguaggio neo-avanguardista. Si costituisce così un ibrido che permette la comunicazione e la giustapposizione fra la lingua delle elites e la lingua del popolo. I pezzi di Pasolini su Officina sono illuminanti per capire un certo periodo storico e i suoi umori, esposti anche negli articoli di Italo Calvino dedicati al tema del Labirinto e pubblicati sulla rivista Menabò e poi raccolti nel volume “Una Pietra Sopra”:

Ma in quella libertà non c’era né scelta né sofferenza: ed era atta a far operare su una sola direzione, quella interiore: in ciò la costrizione di quella libertà era rigorosa. Non c’era spiraglio per riuscirne, neanche per concepire una diversa direzione.  Tutta la lingua – forse per la prima volta nella storia della letteratura italiana – era in sincronia, nei suoi vari generi: la fissazione linguistica era perfetta. Soltanto che la sincronia tra prosa e poesia era stata raggiunta portando tutta la lingua al livello della poesia, e la prosa non era più possibile.

   Entra qui in gioco il problema della lingua: l’Italia è sempre stata, secondo Pasolini, divisa in isolotti linguistici a se stanti, in mancanza di una koinè linguistica unitaria che unisse la penisola dal punto di vista della lingua. L’italiano come lingua parlata non è mai esistito, secondo l’autore, fino al dopoguerra. I dialetti che affiorano nei due romanzi testimoniano di un magma che non si è ancora solidificato, di una frizione fra dialetto parlato dal popolo e lingua italiana non ancora codificata che è un cantiere aperto, libero e con ampie possibilità. Poi sul finire degli anni ’60 la situazione precipiterà, e i dialetti subiranno un duro colpo che li ridimensionerà per via dell’apporto fornito dalla televisione e dalla cementificazione unificante delle infrastrutture. I ragazzi di vita che imperversano per Roma si troveranno all’improvviso senza una lingua da poter parlare e maneggiare, diventeranno afasici e muti per la scomparsa di un dialetto, in questo caso il dialetto romanesco che avevano assimilato insieme al latte materno. E’ questa la grande tragedia del popolo romano e italiano in genere dal dopoguerra in avanti.

Tommaso Puzzilli, il protagonista di “Una vita violenta” vaga per Roma come un lupo solitario, diventa missino, poi comunista e finisce per morire in un sanatorio a causa dell’asma. E’ un ragazzo che tenta di arrangiarsi fra le macerie dell’Italia post-bellica, e il romanzo è accomunabile ad un romanzo di formazione, un “bildungsromance” che però ha un finale tragico. Tommaso alla fine non potrà che soccombere di fronte ad una Italia che progredisce, ma in una direzione progressista univoca, concentrazionaria, che non può piacere all’autore. Emerge qui il “grave estetismo di morte” che Pietro Citati rileva fra le pagine letterarie e le inquadrature cinematografiche di Pasolini, quegli impulsi di morte rilevati da Freud che sono alla base dello scontro fra Principio di Piacere e Principio di Realtà, fra Eros e Thanatos. Pasolini, votato all’autodistruzione, si cala sui suoi personaggi con la disperazione e l’affanno di un affamato, di un drogato (dirà crudamente Alberto Asor Rosa in “Scrittori e popolo”, libro importante per capire gli umori del tempo).

Da notare il manualetto, fornito in fondo ai due romanzi, ad uso delle “signore dell’alta borghesia del nord” che volevano entrare in contatto con la materia bruta del linguaggio della plebaglia romana dell’epoca, che era prima dialetto romanesco ma con ascendenze slang derivanti dal linguaggio operaio e industriale. Una resistenza quindi dei temi realistici, la descrizione di una realtà posseduta ma che tende a divincolarsi, a farsi magmatica, a scappare da tutte le parti, una resistenza della materia bruta contro la adulterazione fornita dalla letteratura di evasione e dalla letteratura fintamente “impegnata” del tempo.

Nello «sperimentare» dunque, che riconosciamo nostro (a differenziarci dall’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso, problematico e drammatico, coincidente con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede il continuo, doloroso sforzo del mantenersi all’altezza di un’attualità non posseduta ideologicamente, come può essere per un cattolico, un comunista o un liberale….. Il suo fine, come abbiamo già scritto altra volta su questa rivista, è di abolire alle origini ogni forma di «posizionalismo», in una verifica continua, in una lotta continua contro la latente tendenziosità: facendoci adattare senza pace «il periscopio all’orizzonte» e non viceversa.

In questo adattare il periscopio all’orizzonte e non viceversa la bulimia conoscitiva pasoliniana non può che avvicinarsi al cinema. Con il cinema Pasolini continua il discorso iniziato con i due romanzi romani. Il cinema, secondo Pasolini, descrive la realtà con la realtà, e quindi riesce a dare un precipitato di realtà in maniera superiore ad altri mezzi espressivi che sono simbolici per natura cioè mediano la realtà con dei segni (la narrativa ad es. utilizza le parole che appartengono all’universo dei simboli, dei segni quindi hanno la funzione di mediare con la realtà, di convergerle, di rifrarla ecc.). Il cinema costituisce quindi l’alternativa ai linguaggi borghesi, ma un cinema che sia realmente poetico e realistico insieme, dato che anche il linguaggio del cinema sovietico e della rivoluzione bolscevica, dopo un inizio realmente libero e innovativo, si era arenato in una propaganda sterile e ripetitiva, ed era divenuto un’altra forma mascherata di linguaggio unico e di pensiero unico. Un realismo vero in cui il dato interiore si fondi con il dato esteriore in un vero e proprio neo-sperimentalismo programmatico.

Lo sperimentalismo stilistico, dunque, che non può non caratterizzarci, non ha nulla a che fare con lo sperimentalismo novecentesco – inane e aprioristica ricerca di novità collaudate … – esso presuppone una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito. La libertà della ricerca che esso richiede consiste soprattutto nella coscienza che lo stile in quanto istituto e oggetto di vocazione, non è un «privilegio di classe»: e che dunque, come ogni libertà, è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, angosciante.  Ci difendiamo da ogni misticismo, e quindi anche da quello del coraggio in sé, del pensare stoico: ma sappiamo che, alla fine, la serie delle sperimentazioni risulterà una strada d’amore – amore fisico e sentimentale per i fenomeni del mondo, e amore intellettuale per il loro spirito: la storia: e che su questa strada non potremo non essere sempre, «col sentimento, – al punto in cui il mondo si rinnova».

Tutte queste buone intenzioni cadranno con il sopraggiungere delle sirene del neocapitalismo e della televisione moderna, che distruggeranno il punto di vista del popolo e faranno trionfare il linguaggio delle elites tecnocratiche sovranazionali. Le multinazionali parlano il linguaggio fintamente polimorfo, in realtà brutalmente univoco (Pasolini lo avrebbe definito fascista) dei logo e dei brand, e mirano ad assoggettare tutte le prospettive dissonanti e farle convergere nel grande bacino consumistico caratterizzato dal pensiero unico. In questo contesto si manifesta e arriva la crisi del cinema italiano. Il postmodernismo è il modo che le forme artistiche trovano per fronteggiare questa situazione, mentre il cinema italiano si rifugia in storie e stili ombelicali, senza più esplorare il mondo circostante alla ricerca di spunti veri per raccontarsi e raccontare il proprio paese. In questo senso il film “Amore tossico” di Claudio Caligari è un po’ la fine di un percorso: basato su uno stile per lo più improvvisato, servendosi di attori presi dalla strada ed eroinomani veri, alcuni morti davvero dopo la fine delle riprese, crea un corto-circuito arte-vita come raramente se ne erano visti nel cinema italiano, che pure aveva dato i natali ad un neorealismo forse più apparente che profondo e viscerale. “Amore tossico” si svolge completamente nell’ambiente di Ostia Lido, e contiene nel finale un omaggio alla lapide di Pasolini, eleggendolo un po’ a nume tutelare di tutta l’operazione.

In seguito la trasformazione del tessuto sociale e umano dell’Italia dagli anni ’80-’90 in poi è dettato dall’irrompere della tecnica, e dall’esplosione delle forme di comunicazione dominate dal digitale audiovisivo: l’unica realtà raccontabile per immagini diviene la realtà della tecnica, in special modo quella non prodotta in modo autoctono ma proveniente da oltre-atlantico. Ritroviamo Caligari anni dopo, prima con “L’odore della notte” (1998), poi con “Non essere cattivo” (2016). Caligari morirà a causa di un tumore maligno con cui aveva convissuto durante tutte le riprese dell’ultimo film, non prima però di averci lasciato un’opera che non tradisce le premesse della sua cinematografia.

“Non essere cattivo”, ultimo film di un regista atipico e poco prolifico (nei suoi 40 anni di attività ha realizzato solo 3 film e una manciata di documentari) è un film più costruito rispetto ad “Amore Tossico”, ma ne mantiene intatte le premesse di sincerità ed empatia viscerale con la materia narrata. Vittorio e Cesare (gli attori Luca Marinelli e Alessandro Borghi) nel film sono due giovani tossici che cercano di sopravvivere nel microcosmo della realtà sempre di Ostia Lido ma questa volta degli anni ‘90. La visuale di Caligari è emblematica di alcuni registi che partono da un registro realistico ma poi approdano ad una dimensione più fantasiosa, più costruita. Girato secondo i dettami del “discorso libero indiretto” pasoliniano, inserisce nel quadro realistico anche le sensazioni dei personaggi, ciò che essi vedono e ciò che esperiscono. Stessa situazione era successa a Michelangelo Antonioni nel suo passaggio dalle prime opere ferraresi ai più maturi “Blow up”, “Zabriskie point”, fino a “Professione Reporter”. Si arrivò poi alla frantumazione del realismo, all’iper-realismo del free cinema inglese, che nella sua pretesa di oggettività distrugge il normale e naturale scorrere del tempo. Anche Pasolini, dopo i primi film come “Accattone” e “Mamma Roma” rileverà che nel regista cinematografico non più esordiente subentra una volontà a ricostruire, a camuffare. Dello stesso “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, suo ultimo film, ne dichiara la natura estremamente artefatta, quasi che la spinta al realismo fosse qualcosa che in qualche modo evapora, qualcosa che i registi, col passare del tempo e il progredire del “mestiere” non riescono più a mantenere integra e intatta. Il realismo mimetico dei primi film è stato dimenticato, infatti Caligari alternerà al set dei suoi film lunghi periodi di silenzio, per preservare una ispirazione cercata con il massimo della sincerità e purezza di intenti, ma silenzio anche forse imposto dalla mancanza di interlocutori produttivi reali. Il cinema italiano ormai in quegli anni realizzava, per la sua mera sopravvivenza di mercato, commedie di costume, spesso di un livello ben al di sotto della sufficienza, non certo opere dalla spiccata vocazione drammatica.

Il cinema americano dopo il ’68 esploderà con il new-american cinema, con il cinema di Star Wars e degli effetti speciali e poi digitali. Il digitale consente di maneggiare l’immagine cinematografica come fosse il quadro di un pittore, in cui ogni elemento può essere manipolato e non si è più vincolati alla base foto-riproduttiva dell’immagine stessa. Le potenzialità del cinema come estetismo avranno la meglio, al di sopra di quella politicizzazione dell’arte che era preconizzata da Walter Benjamin nei suoi scritti più famosi. L’irrealtà della televisione, delle ballerine-ninfette di Non è la Rai, dei personaggi costruiti in studio da Maria De Filippi, dai corpi scolpiti e perfetti (che comunque rimanda alla realtà subalterna dei ragazzi borgatari, per i cui padri e madri il riscatto dal proletariato e dalla povertà passa attraverso la gioventù dei propri figli che sudano, ballano e si sbracciano in televisione) avrà la meglio. E i cinecomics americani distruggono l’idea che possa essere proposto un linguaggio realistico, aderente al vero e mimetico con la realtà, almeno come resa di gradimento da parte del pubblico.

In Italia Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, registi di punta del nostro nuovo cinema, hanno un diverso rapporto con il realismo. Sorrentino gonfia il racconto in modo grottesco, lo fa con “La Grande Bellezza”, ha un approccio dalle modalità felliniane, che però lo porterà alle derive simbolistiche e stucchevoli di “Loro 1” e “Loro 2”, il dittico sugli ultimi giorni di potere di Silvio Berlusconi, con sconfinamenti nell’occultismo e nell’esoterismo.

Garrone con “Gomorra”, tratto da Roberto Saviano, punta all’essenza cruda e diretta, ma  non dimenticherà la dimensione favolistica con “Il racconto dei racconti”, tratto da “Lo cunto de li cunti”, la raccolta di racconti partenopei di Giovambattista Basile, in una operazione simile a quella effettuata dalla Trilogia della Vita pasoliniana: “Il Decameron”, “I Racconti di Canterbury”, “Il Fiore delle mille e una notte”. In ultimo “Dogman”, per Garrone è un film terminale, si conclude la ricerca iniziata con gli altri suoi film. La coerenza senza requie, il realismo ossessivo e affannoso porta a questo, al sangue, alla violenza, alla chiusura nella gabbia della realtà immediatamente percepita. Una direzione senza uscita. La questione sul Realismo nella cultura e nell’arte oggi è un po’ abbandonata, salvo eccezioni, in riferimento al contesto europeo e delle proposte internazionali che ci arrivano, o che a dire il vero spesso subiamo senza validi anticorpi strutturali.

di Gianfranco Tomei

Ricercatore e Professore Aggregato in Psicologia Sociale

Università Roma Sapienza

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