Milano 3 Marzo – In fondo c’eravamo tutti convinti che fosse diventato immortale e che, in qualche modo, avesse trovato il segreto della vita eterna. Gillo Dorfles, invece, ha scelto di andarsene all’improvviso, nonostante i 107 anni (era nato a Trieste il 12 aprile 1910). Un colpo ancora una volta a sorpresa come quando lo scorso 13 gennaio aveva inaugurato alla Triennale di Milano una sua mostra di dipinti e non una retrospettiva (più o meno celebrativa) ma quindici nuove tele realizzate solo lo scorso anno. «Ho sempre nuovi progetti — aveva detto durante l’inaugurazione — se no sarei già morto. Riguardano soprattutto la pittura, la mia grande passione. Anche se è pittura per modo di dire: come artista non posso considerarmi riuscito in maniera assoluta. Come critico no, ma come pittore sono stato sempre un dilettante».
Quello di Dorfles è stato sempre un percorso anomalo. Fatto di corsi, ricorsi e di scoperte definitive (sarà lui il grande sdoganatore di quel kitsch, versione colta del cattivo gusto, di cui molti saranno poi diventati portabandiera). Dopo la prima guerra mondiale il giovane Gillo si trasferisce con la famiglia a Genova, dove trascorre l’infanzia. Poi, al termine del conflitto, rientra nella sua Trieste e si iscrive al Liceo Classico, per trasferirsi a Milano nel 1928 (città da lui molto amata, ma sempre con la giusta dose di critica), dove studia medicina (anche se poi completerà il suo percorso universitario a Roma come allievo interno nella clinica Cesare Frugoni), laureandosi nel 1934 e specializzandosi in neuropsichiatria.
A partire dagli anni Trenta ha svolto un’intensa attività di critica d’arte e saggistica collaborando a «La Rassegna d’Italia», «Le Arti Plastiche», «La Fiera Letteraria», «Il Mondo», «Domus», «Aut Aut», «The Studio», «The Journal of Aesthetics». Ma per l’ennesima volta Gillo cambia marcia e cercando (e trovando) nuove prospettive: esordisce in pittura negli anni Trenta e nel 1948 con Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet, fonda il Movimento Arte Concreta (MAC) «con l’obiettivo di dar vita a un linguaggio artistico nuovo, in grado di assimilare e di superare le ricerche astratte europee dei decenni precedenti».
Negli anni Cinquanta ha inizio l’attività teorica e critica di Dorfles, che si presenta decisamente rivoluzionaria rispetto agli assunti crociani ancora dominanti. Perché l’attenzione di Dorfles è rivolta soprattutto «ai fenomeni comunicativi di massa, alla moda e al design, soffermandosi pur sempre sulla pittura, sulla scultura e sull’architettura moderna e contemporanea». Dagli anni Sessanta insegna estetica in diverse università italiane (Milano, Trieste, Cagliari) e dagli anni Ottanta riprende l’attività pittorica e grafica che per i suoi numerosi impegni aveva interrotto.
Numerosissimi i riconoscimenti internazionali sia come artista che come critico. Negli ultimi decenni gli sono state dedicate mostre a New York (Wittenborn Gallery, 1955), Milano (Padiglione d’Arte Contemporanea, 2001; Palazzo Reale, 2010; Fondazione Marconi, 2014), Trieste (Museo Revoltella, 2007), Chiasso (Max Museo, 2010), Rovereto (Mart, 2011), Urbino (Casa Raffaello, 2014), Roma (Macro, 2015), Lugano (Studio Dabbeni, 2016). Nel 2010 è pubblicato Gillo Dorfles – Catalogue Raisonné, a cura di Luigi Sansone, Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: Discorso tecnico delle arti (1952), Le oscillazioni del gusto(1958), Architettura moderna(1954), Il divenire delle arti(1959), Ultime tendenze dell’arte oggi (1961), Il disegno industriale e la sua estetica(1963), Nuovi riti, nuovi miti (1965), L’estetica del mito (1967), Il Kitsch (1968), Il divenire della critica (1976),Mode & Modi (1978),Elogio della disarmonia(1986), Preferenze critiche(1993), Fatti e fattoidi (1997), Irritazioni(2000), La (nuova) moda della moda (2008), Itinerario estetico(2011).
Insomma non c’è stato territorio che Angelo Dorfles detto Gillo non abbia esplorato (la sua casa di Piazzale Lavater è una sorta di racconto di tutte queste sue passioni, dalla pittura al design al pianoforte). Con la voglia di scoprire e la testardaggine (quella che nonostante la sordità gli faceva rifiutare in pubblico di esibire ogni tipo di apparecchio acustico) di un giovane. Un giovane di 107 anni sempre elegante e mai vestito di blu («troppo classico e banale» lo definiva), ma piuttosto di giallo o degli infiniti toni del verde e del marrone. Con un stile e un’eleganza, quelli sì, davvero immortali.
Stefano Bucci (Corriere)
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