Mio figlio non mi parla più

Attualità Società

Un counselor spiega che il silenzio degli adolescenti cela il bisogno di crescere. I genitori possono restare presenti anche senza parole

“Non mi parla più”. È una delle frasi che i genitori di adolescenti pronunciano con maggiore preoccupazione. Quel silenzio improvviso, che sostituisce i racconti quotidiani dell’infanzia, viene spesso vissuto come una frattura insanabile. In realtà, dietro il mutismo dei ragazzi non si nasconde solo chiusura, ma un processo di crescita che richiede nuove forme di ascolto e di relazione.

Nell’adolescenza il silenzio non è assenza, ma linguaggio. Molti ragazzi riducono ai minimi termini il dialogo con i genitori perché sentono la necessità di costruirsi un’identità autonoma. È un passaggio fisiologico: per diventare adulti devono imparare a separarsi, almeno in parte, dalla famiglia. È una fase naturale, descritta dalla psicologia dell’età evolutiva come “separazione-individuazione”: il giovane mette distanza tra sé e i genitori per imparare a camminare da solo. Non significa che non abbia più bisogno di loro, ma che cerca di vivere senza la loro costante mediazione.

Dietro la porta chiusa della camera non ci sono soltanto videogiochi o cuffie nelle orecchie. Ci sono dubbi, insicurezze, emozioni forti che spesso l’adolescente non sa come esprimere. Parlare ai genitori può far paura: il timore di essere giudicati o di deludere è reale. Così, il silenzio diventa una protezione, un modo per non esporsi.

Per una madre o un padre, la distanza improvvisa può essere difficile da tollerare. Ci si sente esclusi, messi da parte, a volte inutili. È una sensazione comune, che non va interpretata come segnale di fallimento. Il silenzio non è la fine della relazione, ma una sua trasformazione.

La reazione più spontanea dei genitori — fare domande insistenti, cercare spiegazioni, pretendere risposte — rischia di peggiorare la situazione. Più si incalza un adolescente, più lui tende a chiudersi. È invece necessario imparare a rimanere presenti senza invadere, disponibili senza pressioni.

L’ho spiegato a una mamma disperata che mi diceva: “Ah, mio figlio… ogni volta che cerco di parlargli si irrigidisce e guarda altrove”. Con l’atteggiamento dell’apertura senza fare domande, in seguito la signora mi ha riferito: “Un giorno gli ho chiesto se mi dava una mano a portare giù la spazzatura. Mi ha aiutata senza dire nulla. Più tardi, per strada, a denti stretti, si è lasciato scappare: ‘Oggi a scuola è stato un disastro’. Avrei voluto fare mille domande, ma sono riuscita a trattenermi. Dopo un interminabile silenzio, ha iniziato a raccontarmi qualcosa di più, a spizzichi e bocconi”.

Un episodio semplice, che rivela molto. Il dialogo con un adolescente non nasce da interrogatori, ma da momenti quotidiani condivisi. Preparare una cena insieme, guardare una partita in tv, camminare fianco a fianco verso la fermata dell’autobus: contesti apparentemente banali che offrono spiragli di comunicazione. Spesso è in quei momenti quotidiani che emergono frasi fugaci, battute, domande improvvise. Non bisogna aspettarsi lunghi discorsi, ma imparare a dare valore a ciò che viene fuori.

Un’altra madre mi raccontava che il figlio passava ore in camera ad ascoltare musica, ma non c’era verso che ascoltasse lei. “Invece di rimproverarlo – le ho consigliato – perché non prova a chiedergli di farle sentire una canzone?”. È stato l’inizio di un dialogo nuovo: attraverso i testi, il ragazzo esprimeva stati d’animo che non avrebbe mai raccontato direttamente. La musica è diventata un ponte, un terreno comune.

Ci sono anche situazioni in cui la condivisione passa attraverso il solo linguaggio gestuale. A un padre infastidito e preoccupato che, tornando dal lavoro, vedeva il figlio continuare a disegnare senza degnarlo di uno sguardo, ho suggerito di provare a sedersi accanto a lui cingendogli le spalle con il braccio: un gesto potente, l’abbraccio, che comunica presenza, sostegno, affetto incondizionato. Dopo qualche sera, il ragazzo ha cominciato a fare qualche commento sui propri schizzi e in seguito a raccontare qualche cosa della sua giornata. Non era la domanda diretta ad aprire lo spazio, ma la vicinanza autentica, sebbene silenziosa.

Comunicare con un figlio adolescente non significa necessariamente avere con lui un dialogo. Molti ragazzi si esprimono attraverso linguaggi diversi: la musica che ascoltano, lo sport che praticano, i disegni o i video che producono. Prestare attenzione a questi canali alternativi di comunicazione può diventare un modo concreto per mantenere un legame, anche quando le parole mancano.

Allo stesso tempo, è utile che il genitore dia l’esempio condividendo emozioni proprie, senza forzare quelle del figlio. Parlare di sé in modo semplice, raccontando piccoli episodi di vita ordinaria — “Ti ricordi la mia amica Chiara che è stata anche qui da noi? Oggi ci siamo trovate all’uscita dal lavoro e…” — mostra che esprimere stati d’animo non è segno di debolezza, ma di normalità. Questo può incoraggiare l’adolescente ad aprirsi, quando si sentirà pronto.

Essere genitori di un adolescente che non parla più come un tempo significa accettare la trasformazione del legame. Non si è più il centro della vita del figlio, ma si diventa punto di riferimento stabile, porto sicuro a cui tornare.È un passaggio inevitabile e, a lungo termine, prezioso: se affrontato con pazienza e fiducia, rafforza il rapporto e prepara a una relazione più matura. E la presenza del genitore in questa fase è fondamentale per il figlio.

Naturalmente, ci sono situazioni in cui il silenzio non è solo fisiologico. Se si accompagna a segnali di forte disagio — isolamento costante, calo drastico del rendimento scolastico, cambiamenti improvvisi nel comportamento o rifiuto di ogni contatto sociale — può essere utile rivolgersi a un professionista. Non si tratta di “delegare” l’educazione, ma di offrire al ragazzo uno spazio neutrale dove sentirsi libero di esprimersi.

Un figlio che tace non è un figlio che non ama. Il suo silenzio è parte di un percorso complesso verso l’età adulta. Per i genitori la sfida è accettare questa fase senza viverla come un fallimento, coltivando la pazienza di chi sa che le parole torneranno. Forse non saranno più i racconti dettagliati dell’infanzia, ma frammenti, battute, domande inaspettate. Sono piccoli segnali che, se colti, raccontano una verità semplice: il legame resta, profondo, anche nel silenzio.

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