Pubblichiamo un bellissimo articolo che prende spunto dal Docufilm Miracolo a Milano per analizzare il fecondo periodo del governi di centrodestra del Comune e raffrontarlo con la stasi attuale.
Un “Milano-Pride”, sicuramente, ma anche un ragionamento politico tosto, concreto e double face: sulle luci di una strategia visionaria che ha cambiato da così a così il volto e la vita di Milano, e sulle ombre di un’insensatezza conservatrice che la sta deprimendo. “Miracolo Milano”, il docufilm di Michele Saulle ispirato da Luigi Crespi – l’ex “sondaggista di Berlusconi”, passato da Baggio a Palazzo Chigi e poi sopravvissuto a caterpillar giudiziari che avrebbero spiaccicato un toro – è questa roba qui: un po’ autocoscienza motivazionale, un po’ “avviso ai naviganti” in vista di rinnovi politici di territorio angosciosamente lontani per quanto sarebbero urgenti.
È un bel racconto, per testimonianze politiche, sociali e professionali tutte appropriate, di quell’allineamento astrale per cui dalle rovine di Tangentopoli, che sembravano aver sotterrato il mito della “capitale morale”, è potuta rinascere una “Fenice” urbanistica ed economica che viene invidiata nel mondo: dalla nuova Fiera a City Life con le sue tre torri di tre archistar abituate ai compensi e agli scenari degli Emirati o del Giappone, da Porta Nuova con il suo avvenirismo inclusivo a Palazzo Lombardia e a tutta una serie di opere pubbliche che, con la spesa di 6 miliardi nostri (erariali) ne ha mobilitati altri 24 privati, cambiando il volto della Città. E poi l’Expo, sfociato oggi nel Mind, e poi le bonifiche, madri delle Olimpiadi, e tante altre cose che funzionano bene, funzionano ancora.
La gnagnera pluridecennale della via Gluck – pur meravigliosa canzone – con la sua erba che in realtà nessun milanese, tantomeno quelli di adozione come chi scrive, ha mai rimpianto, appare dal film di Saulle giustamente ridimensionata a dagherrotipo di un passato che non c’è mai stato, perché Milano non s’è mai fermata a piagnucolare sul buon tempo che fu, che poi in realtà non fu, non fu mai. Questa città è rinata da Tangentopoli, per pervicace che fosse la cultura frenatrice di chi ha confuso alcune (anche molte, diciamolo) “mele marce” con tutto il camion delle mele e per quanto forti siano ancora le resistenze snobistiche della Ztl sinistrorsa al caviale. È diventata una città universitaria gettonata da tutto il mondo, ha rilanciato la ricerca, ha accentuato l’innovazione e la capacità di produrre beni immateriali ma strategici, si è distinta come capitale della salute, delle fiere, dell’export, oltre che della moda e del design, ha coniugato crescita infrastrutturale con una relativa apertura sociale.
Tutto questo è ben raccontato dagli orchestrali aggregati da Crespi, come sempre un po’ la Moira Orfei della comunicazione strategica, impresario e mattatore, con al centro delle imprese i suoi cari – bravissimi, peraltro: a cominciare da Anna e Natascia – e attorno un gruppo di amici carsici, dall’autore Renato Farina a tanti altri, a periodi più o meno presenti nelle sue varie attività ma comunque vicini. Quel che manca, forse – bisogna pur campare, e quando hai per sponsor due leviatani ubiquitari di sistema come Pwc ed Enel se ne tiene giustamente conto – è un po’ di affilatura in più rispetto alla gestione Sala del secondo mandato, quello dei cantiericchi infiniti per piste ciclabili senza senso, del balbettio incoerente su Palazzopoli, di un vorrei-ma-non-posso sullo scenario nazionale della sinistra e di una dissolvenza d’immagine e di sostanza locale.
Oggi il modello Milano, questo bel prodotto del Miracolo Milano del titolo, è purtroppo fagocitato dal romanismo meloniano, che ha assegnato per decreto a un ottantaquattrenne bilioso il controllo di Mediobanca e delle Generali e che ha subordinato ad equilibri cencelliani nomine pubbliche sospese per mesi in ossequio a logiche spartitorie che sorvolano a quota stratosferica gli interessi e la nomenclatura milanese, potenzialmente qualificatissima. Insomma, i miracoli non sono il Reader’s Digest, uscito ogni mese per un secolo, non è detto che si ripetano, anche Lazzaro, pur fatto risorgere da nostro Signore in persona, qualche decennio dopo andò al creatore, e quindi anche Milano oggi rischia: da una parte, questo ridicolo monopolio di una cerchia ristretta ma incisiva di intellighenzia post-comunista che quando vede un’automobile ha una crisi di nervi e confonde l’arredo urbano e le panchine con la decarbonizzazione; dall’altra un forte post-fascismo siculo-romano che non è mai diventato milanese; dall’altra parte ancora, una Lega meno milanese che mai, sorretta (poco) da feudatari lontani, da Zaia a Durigon a Fedriga allo stesso Vannacci, mentre Salvini, La Russa e gli eredi Berlusconi (già: perché il vero protagonista remoto di Miracolo Milano è stato anche e comunque il Cavaliere!) non sembrano saper declinare sul territorio metropolitano una nuova capacità di gestire il sociale, intanto che il mercato produce: quell’incapacità appunto di fare gli ascensori (sociali) dopo aver fatto bene i grattacieli, (copyright Venanzio Postiglione) che è l’ulteriore riprova dell’inadeguatezza dell’amministrazione di oggi, ma anche della passività dell’opposizione di destra; un’inadeguatezza che ha lasciato prosperare, nelle vene della metropoli, il virus di San Francisco, quello della sporcizia, dei clochard senza prospettive, degli emarginati senza tutela e dei violenti senza repressione.
In questo senso non stupisce il “niet” della festa del cinema di Roma alla presentazione del docufilm perché troppo “locale”. Altro che locale: Milano può ancora essere un modello per il Paese, ma i difetti del Paese – che la destra di governo non sta realmente intaccando – la stringono d’assedio. Questo film brucia ai politici romani perché gli ricorda “quanto è meglio” Milano, e quanto stanno facendo per imbruttirla.
Deliziosa la chiusa del docufilm. Con due protagonisti indiscussi della stagione dell’orgoglio, Gabriele Albertini – sindaco per 9 anni, con due giunte, i famosi 6 miliardi ben spesi e mai un avviso di garanzia per nessuno, a Palazzo Marino! – e Roberto Formigoni, per 16 anni governatore della Lombardia, infaticabile e certo innocente dei reati che gli hanno procurato pene ingiuste, ma non di qualche euforia, di un’ipertrofia dell’ego, che un vero leader dovrebbe controllare meglio, per quanto reato non sia. Ebbene, Albertini e Formigoni hanno accettato autoironicamente di fare gli “umarell” (tradotto per i non milanesi: gli anziani pensionati che curiosano davanti ai cantieri stradali per scrutarne il lavoro) e sfotticchiare così le lentezze e le inconcludenze della gestione attuale. Una nota a margine garbata come solo l’ironia di classe sa essere.
Insomma, un docufilm da vedere: il 10-11-12 novembre nelle sale Uci di Milanofiori, Lissone, Pioltello, Porte di Roma, Orio Center a Bergamo, Lingotto a Torino, Fiumara a Genova, Meridiana a Bologna, Firenze, Reggio Emilia. (s.l.) 
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