Con un intervento inusuale per la sua abituale riservatezza, Marina Berlusconi affida alle pagine de il Giornale una riflessione tanto personale quanto politica sulla questione della giustizia in Italia. Partendo dalla drammatica esperienza della persecuzione subita dal padre, Silvio Berlusconi, che prosegue persino dopo la sua scomparsa, la Presidente di Fininvest e Mondadori lancia un monito severo. La lettera, intitolata “Giustizia, la luna nera che urge illuminare”, si trasforma in una vibrante denuncia contro quella che definisce una “casta intoccabile” all’interno della magistratura, che antepone i “teoremi” politici alla ricerca della verità. La missiva, che solleva il velo sulla doppia faccia di un sistema giudiziario percepito come profondamente malato, rappresenta un appello diretto e appassionato per l’urgente necessità di una riforma profonda e non più rinviabile.
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Caro Direttore,
come si può litigare su una sentenza della Cassazione? In questi giorni la Suprema corte ha respinto definitivamente le tesi della Procura generale di Palermo, che continuava ad attribuire una presunta “pericolosità mafiosa” a Marcello Dell’Utri. Le conseguenze sono di enorme rilevanza, perché certificano che non ci sono mai stati riciclaggi di Cosa Nostra nella Fininvest, né accordi con Forza Italia. La sentenza è quindi un cruciale passo avanti anche sul cammino della verità per mio padre.
Eppure sui quotidiani la decisione della Cassazione si è trasformata in tutt’altro, cioè in un nuovo scontro innescato da chi l’ha ingiustamente sminuita, con argomentazioni pretestuose e ipocrite. A quanti oggi ridimensionano il valore di questa sentenza, gli stessi che da una vita gridano che “le sentenze vanno rispettate sempre”, mi verrebbe da dire: “sì, sempre che piacciano loro”. Quel che però mi ha più sconcertato e continua a inquietarmi è il clima velenoso, incattivito, che per l’ennesima volta si è creato. Ho visto giornali riesumare passaggi di vecchi documenti processuali, tolti dal loro contesto, solo per fare il controcanto a una pronuncia di cui avrebbero dovuto limitarsi a prendere atto. Non se ne sentiva alcun bisogno.
Polemizzare su una sentenza è un po’ come confondere il dito con la luna. Anche perché il problema di cui stiamo parlando va ben oltre l’esperienza subita da mio padre, per quanto drammatica sia stata. Proprio come la luna, infatti, la nostra giustizia ha due facce. È doppia. Sulla sua faccia luminosa stanno la nostra grande civiltà giuridica, il rispetto delle regole e la giusta fiducia nello Stato di diritto. Ma poi c’è la faccia in ombra, la “luna nera” dove agisce quella piccola parte di magistratura che si considera un contropotere investito di una missione ideologica.
È anche per questo spirito di fazione che purtroppo l’Italia resta un Paese “giustizialista”, dove la voglia di gogna continua a muovere le peggiori pulsioni dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica. Da troppo tempo, queste pulsioni ci fanno vivere in uno stato di presunzione di colpevolezza di massa. E il vero problema è che ogni cittadino rischia di dover dimostrare la sua innocenza davanti a una macchina giudiziaria in cui tutti crediamo sempre meno. Se poi questa giustizia fragile si lascia anche contaminare dalla politica, beh, i risultati non possono che essere disastrosi.
Per questo da tempo sono fermamente convinta della necessità di una riforma dell’ordinamento giudiziario: la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, e la riforma del Consiglio superiore della magistratura per ridurre lo strapotere delle correnti. È una rivoluzione che questo governo ha finalmente avuto il coraggio e la forza di avviare.
Sono interventi “urgenti”, ma lo sono ormai da decenni. Esattamente come sarebbe urgente una nuova e vera responsabilità civile dei magistrati. Perché il principio deve valere per tutti e chi sbaglia deve pagare. È inaccettabile che in Italia almeno mille persone l’anno più di tre al giorno finiscano ingiustamente in carcere, senza che nessuno mai ne risponda.
Davanti alle tante discussioni sterili su presunte – e assurde – emergenze democratiche, mi permetto di dire che la nostra grande e vera emergenza è da tempo e resta ancora oggi la giustizia.
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