Dopo una pluriennale esperienza in qualità di Direttore Risorse Umane, il Prof. Enrico Minelli è attualmente docente di Risorse Umane e Organizzazione Aziendale presso Istituzioni Universitarie, Società di Consulenza e tiene corsi di formazione in Regione Lombardia, relativi alle sue materie.
Parlando di salute mentale nel mondo del lavoro spesso sentiamo il termine “burnout”. Cos’è esattamente il “burnout” e quali sono le cause?
Il burnout, in italiano chiamato anche esaurimento lavorativo, è uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale, che si sviluppa in risposta ad un forte stato di stress sul posto di lavoro o in altre situazioni di forte pressione. Non è semplice “stanchezza” ma un insieme di sintomi, che tendono a persistere, se non affrontati e gestiti adeguatamente.
Quali sono i principali segnali di burnout?
Innanzitutto ci si sente come “svuotati”, senza energie, stanchi, si registra una perdita di motivazione ed un atteggiamento negativo verso il lavoro; si è più irritabili anche con i colleghi, oltre alla sensazione di non essere più “produttivi” o addirittura inutili. Di conseguenza si verifica una difficoltà di concentrazione, frequenti mal di testa, disturbi del sonno, ansia, tutti elementi che creano un disagio nella squadra aziendale.
Tornando alle cause, quali sono le più importanti, oserei dire “scatenanti”?
Il clima aziendale negativo è sicuramente la prima causa. Basti pensare che, anche secondo gli ultimi sondaggi, il clima di lavoro negativo è il primo motivo di dimissioni, soprattutto tra i giovani.
Le anticipo la domanda, su cosa si intende per clima aziendale negativo, perché è un tema vastissimo.
Si può sintetizzare in un carico di lavoro eccessivo, nella mancanza di supporto da parte del capo e dei colleghi, nell’incapacità del capo di gestire i conflitti, negli obiettivi poco chiari, molto spesso nel mancato training ai nuovi assunti che, in molte aziende, vengono letteralmente “mandati allo sbaraglio”.
Una causa importante che contribuisce al burnout è anche la mancanza di inclusione di un soggetto,che si trova isolato in azienda e/o nel suo gruppo di lavoro. E’ un tema che abbiamo già affrontato la volta scorsa, ancora molto deve essere fatto.
Altri elementi sono la difficoltà di conciliare vita e lavoro ed il conflitto generazionale, che spesso non viene gestito adeguatamente.
Quali strategie potrebbero adottare le aziende, per una prevenzione ed una gestione corretta?
A mio parere, una volta individuate le cause, andrebbe implementata una strategia per gestire il clima aziendale e prevenire situazioni di burnout, che incidono non soltanto internamente, ma anche sulla reputazione dell’azienda all’esterno. Per questo motivo, molte aziende hanno aumentato o implementato il supporto psicologico. Pensi che non avevo mai sentito, durante i colloqui di assunzione, la domanda “l’azienda prevede uno psicologo?” Da un paio di anni a questa parte, molti giovani lo chiedono tranquillamente. Fino a qualche anno fa sarebbe stato impensabile!
Oltre ad un sostegno di natura psicologica, è necessario creare un clima di comunicazione aperta, fare in modo, cioè, che i dipendenti possano esprimere le loro difficoltà senza timore di giudizio, possano parlare senza sentirsi dire, come mi è successo recentemente in una azienda, “abbiamo fattosempre così, sei l’ultimo arrivato…..”
Altri provvedimenti potrebbero essere:
-una maggiore promozione del lavoro flessibile: purtroppo nel nostro paese, uno studio recente ha stimato che 4 dipendenti su 10 potrebbero lavorare parzialmente da remoto, effettivamente solo 1,2 dipendenti su 10, ne ha la possibilità da parte del datore di lavoro;
– evitare la cultura del “sempre connesso”, quando sei in remoto: ho esaminato casi in cui le aziende, non tenevano in alcun conto l’orario e contattavano il personale a qualsiasi ora;
-training adeguati ai manager per capire e gestire eventuali situazioni di disagio, nel proprio team: succede spesso che ci sia una promozione a manager senza un training adeguato. Teniamo presente che in molte aziende, il training è visto ancora come un costo e non come un investimento;
-bilanciamento dei carichi di lavoro ed evitare straordinari “cronici”;
-assegnare obiettivi raggiungibili: obiettivi non realistici potrebbero portare ad ansia, per la difficoltà di raggiungerli e rendere il dipendente demotivato, fino ad essere meno coinvolto nel contesto aziendale: “non riuscirò a raggiungere l’obiettivo perché non sussistono le condizioni o non ho gli strumenti adeguati, pertanto non lo perseguo… e non mi impegno;”Sono soltanto alcune delle strategie che i datori di lavoro potrebbero prendere in considerazione, per migliorare il clima aziendale e prevenire eventuali casi di malessere psicologico che, ripeto, potrebbero influire anche sugli altri dipendenti, oltre a essere percepiti negativamente da clienti, stakeholders e dall’esterno in genere. Non sottovalutiamo le piattaforme di recensione, a disposizione di tutti e consultate prima di accettare una proposta di lavoro, soprattutto da parte dei giovani.
In sintesi, la prevenzione del burnout non è soltanto ridurre lo stress, ma costruire una cultura aziendale sostenibile, che valorizzi il benessere, le potenzialità di una persona e di conseguenza la renda coinvolta nei processi aziendali.
Restiamo sul burnout, ci sono differenze nei generi?
Si, ci sono differenze nell’affrontare il burnout, con conseguenze diverse in azienda, in merito alla gestione del burnout maschile e femminile.
Le donne sono esposte al burnout anche per il “doppio carico” (lavoro più famiglia), che spesso può portare alle dimissioni ed alla conseguente perdita di potenziali talenti (parlo del nostro paese, meno all’estero per mia esperienza). Inoltre le donne tendono ad essere più “disponibili e collaborative” sul lavoro, il che può portare ad ansia da aspettative nei confronti degli altri.
In loro il burnout tende a manifestarsi con sensi di colpa, autopercezione di inefficienza, ricorrono più spesso degli uomini a un supporto sociale (amici, famiglia, colleghi) e psicologico (esterno o aziendale se disponibile).
Gli uomini in fase di burnout tendono a essere più distaccati e cinici verso il lavoro, hanno un atteggiamento quasi difensivo piuttosto che un esaurimento affettivo come le donne. In loro il burnout si manifesta con irritabilità, frustrazione, comportamenti aggressivi. Inoltre tendono a isolarsi, talvolta con ricorso ad alcol o ad altri comportamenti di compensazione. Possono sentirsi meno legittimati a chiedere aiuto o a mostrare vulnerabilità, ritardando la presa in carico del problema.
Per evitare possibili “discriminazioni” molte aziende non hanno più lo psicologo che visita in loco, ma hanno adottato piattaforme con un elenco di uno o più psicologi convenzionati che il dipendente può scegliere e contattare privatamente. Ovviamente soltanto chi si occupa di risorse umane, o reparto equivalente ne sarà informato.
Come pensa sia affrontata la problematica della salute mentale, sul posto di lavoro da parte delle aziende italiane?
A mio parere le grandi aziende cercano di gestire quanto più efficacemente possibile il problema. Sono consapevoli che esiste, con tutte le conseguenze di cui abbiamo parlato, pertanto stanno mettendo in atto delle strategie con provvedimenti concreti.
Le pmi faticano a prendere coscienza del problema e soprattutto delle sue conseguenze, con il rischio di un “turnover” importante di personale, che ricade sia sulla reputazione aziendale che sulla produttività interna
Mi prenoto per la prossima intervista sul benessere aziendale, è d’accordo?
E’ un tema strettamente legato alla salute mentale, volentieri!
Linda Tarantino
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845