Nel cuore delle trasformazioni globali, l’intelligenza artificiale si impone come la competenza fondamentale del XXI secolo. Lo hanno capito bene due attori emergenti dello scacchiere mondiale: la Cina e gli Emirati Arabi Uniti. Due Paesi profondamente diversi per storia, cultura, modelli educativi. Eppure oggi accomunati da una scelta strategica precisa: rendere obbligatoria l’educazione all’intelligenza artificiale fin dall’infanzia.
Una scelta che può apparire audace. O addirittura prematura. Ma è davvero così?
In Cina, l’IA non è solo una materia scolastica. È un asse portante della politica industriale e della visione geopolitica del Paese. A partire da settembre 2025, tutti gli studenti cinesi (dalla scuola primaria a salire) dovranno seguire corsi sull’intelligenza artificiale. Si parla di almeno otto ore all’anno, ma il vero impatto è culturale, perchè si educano i bambini a pensare in termini algoritmici, a dialogare con le macchine, a modellare il mondo attraverso i dati.
Certo, il modello cinese solleva interrogativi sul ruolo dello Stato e sull’equilibrio tra educazione e controllo. Ma possiamo ignorare la lucidità della visione? Quando un sistema scolastico decide di investire sull’IA come materia di base, al pari della matematica o della lingua, non sta solo formando futuri tecnici. Sta formando cittadini di una nuova era.
Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno abbracciato questa visione. Anzi, l’hanno portata oltre. L’IA diventerà materia obbligatoria già dalla scuola materna. I bambini di quattro o cinque anni inizieranno a familiarizzare con l’intelligenza artificiale. Con quali strumenti? Attraverso attività ludiche, visualizzazioni intuitive, comprensione delle dinamiche macchina-uomo. Un investimento radicale, supportato da una strategia nazionale che mira a fare degli Emirati un hub dell’IA nel Golfo.
Una scelta sorprendente? Forse. Ma anche lungimirante. Gli Emirati, consapevoli degli effetti destabilizzanti dell’innovazione non governata — basti pensare all’impatto non gestito dei social media — vogliono dotarsi in anticipo di un popolo capace di comprendere e dirigere il cambiamento.
E noi, in Europa, cosa facciamo?
In Europa si discute. Si regolamenta. Si avvia la prima legge sull’IA al mondo, l’AI Act. Senza dubbio un passo importante. Ma mentre a Pechino e a Dubai si formano le menti del futuro, noi siamo ancora prigionieri di un dibattito sospeso tra il timore ed il tecnicismo.
L’alfabetizzazione digitale nelle nostre scuole è del tutto carente. L’IA è spesso confinata a progetti extracurricolari, affidata alla buona volontà di qualche docente visionario. Ed intanto il divario cresce.
Ma l’interrogativo principale è: siamo pronti a fare dell’IA una materia scolastica, con pari dignità rispetto a italiano, storia, scienze? Ed ancora: abbiamo il coraggio politico, culturale e pedagogico per immaginare un nuovo umanesimo digitale?
Non si tratta solo di “insegnare il prompt” o di spiegare cos’è ChatGPT. Si tratta di alfabetizzare alla comprensione del mondo che cambia. La Cina e gli Emirati hanno già reso evidente che l’IA sarà la lingua del futuro. E chi non la parla, sarà analfabeta.
La mia mia riflessione è che la vera sfida sia l’alfabetizzazione, prima culturale e poi tecnica.
Allora, da avvocato che si occupa di innovazione e di intelligenza artificiale, ritengo che l’Italia e l’Europa debbano interrogarsi su un punto essenziale: vogliamo governare l’innovazione o subirla?
La scelta di Cina ed Emirati non è neutra. È politica. È identitaria. È progettuale. L’Europa non può restare spettatrice, perchè non servono solo leggi, ma una visione educativa coraggiosa, che metta l’IA al centro della formazione umana, critica, consapevole.
Perché, se non formiamo menti capaci di comprendere la macchina, rischiamo di lasciarci guidare da chi ha già iniziato ad educarle.
Avv. Simona Maruccio

Giornalista pubblicista, opera da molti anni nel settore della compliance aziendale, del marketing e della comunicazione.