A Scalo Milano, una mostra che esiste solo se i visitatori si fanno fotografare

Cultura e spettacolo

Milano 17 Dicembre – Si entra. Lo spazio è luminoso, appena dipinto di bianco, nuovo, vuoto. L’invito diceva che il 14 dicembre alle 18 si sarebbero inaugurate contemporaneamente una delle tre gallerie d’arte dello Scalo Milano e la mostra «Io non esiste» di Settimio Benedusi. Lo spazio è qui da vedere, molto elegante, una casetta-studio gialla su un lato, ma non ci sono foto alle pareti. Settimio Benedusi, megafono e camice bianco, arringa (e altrettanto farà nei prossimi giorni) i visitatori: «Perché è solo con la vostra presenza e con il vostro assenso a farvi fotografare che la mostra può avere inizio», dice. «Se nessuno verrà a farsi fotografare, la mostra non esisterà». Il suo progetto è ambizioso e generoso: mette in discussione il concetto di fotografo-autore a favore di una relazione paritetica fotografo-fotografato. Una versione contemporanea dell’ «Esposizione in tempo reale n. 4. Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio», che nel 1972 Franco Vaccari aveva proposto alla Biennale di Venezia? «Vaccari lasciava ai visitatori la decisione di farsi una foto-tessera nell’apposita cabina, innescando il processo di autorappresentazione, io ho fatto un passo indietro. Non nego la mia presenza come fotografo, ci sono, ma nulla di più: devono essere i visitatori, “gli altri” a rendere possibile e plausibile l’esercizio della mia professione di ritrattista. Noi come persone ma soprattutto noi come fotografi non siamo nulla se non in rapporto con gli altri».

«Gli altri siamo noi», ha scritto Benedusi nella presentazione del progetto. Che da subito è un successo. Gli amici lo sapevano e sono arrivati numerosi. Il fotografo a Scalo Milano inoltre è conosciuto. Un paio di settimane fa ha immortalato tutti coloro che hanno lavorato a realizzare questo nuovo spazio commerciale a Locate Triulzi, operai e dirigenti, e ha realizzato oltre 200 ritratti stampati poi come in una gigantesca quadreria lunga 68 metri e alta 4 e quindi esposti all’aperto con il titolo «Il lavoro è sacro». La grancassa dei social ha fatto il resto e non a caso Benedusi ha un frequentatissimo blog, attivo dal 2003. C’è confusione, ma anche attesa e curiosità. Benedusi invita i primi visitatori a farsi ritrarre. Le riprese fotografiche sono frontali, dirette, creano il dialogo che programmaticamente l’autore cercava e velocissimo l’operatore di HP Italia, sponsor tecnico dell’evento, stampa il ritratto e lo fa verificare, lo mette al muro. La mostra prende forma, esiste. Benedusi conclude: «Come speravo: la mostra è di chi è venuto a vederla». E mentre i ritratti si sommano alle pareti nascono spontanee riflessioni su un possibile senso antropologico dell’operazione: se è vero che la relazione fra fotografo e fotografato nasce da un incontro paritetico e altrettanto vero che alle pareti si sta costruendo la testimonianza di uno specifico gruppo sociale: quelli che hanno creduto nel progetto di Benedusi.

Giovanna Calvenzi (Corriere)

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