Sono totalmente d’accordo con Francesco Cancellato: al di là delle inchieste giudiziarie e dell’esito che daranno, il problema di Milano è che non è più una città, e che le case non sono più case. L’una e le altre sono diventate rendite finanziarie nelle mani di fondi immobiliari internazionali. A Milano non si costruiscono case per i figli dei milanesi che diventano adulti o per residenti in affitto che vogliono passare alla casa di proprietà. Costoro devono trasferirsi ben fuori dal comune se vogliono poter sostenere il mutuo con cui diventeranno proprietari del loro focolare, e organizzare il proprio pendolarismo in modo da poterlo modificare continuamente in base al gioco dell’oca dei crescenti divieti e limitazioni della mobilità che l’amministrazione comunale di Milano si inventa anno dopo anno.
In città non si costruisce per loro, si costruisce per gente molto ricca che verrà da fuori e si fermerà soltanto qualche anno in città; si costruisce per alimentare il mercato degli affitti a brevissimo termine (fenomeno Airbnb, che non ha come protagonisti solo privati ma anche grandi società immobiliari) che contribuisce a spopolare la città; o semplicemente si costruisce per fare impennare il valore delle quote del proprio fondo immobiliare grazie all’impennata del prezzo degli immobili al metro quadrato.
Come ha scritto Cancellato su fanpage.it,
«basta un Bosco Verticale, una Balena, un Diamantino, Tre Torri ed ecco che il luogo diventa iconico, i prezzi al metro quadro si impennano, l’investimento genera valore e il valore remunera gli azionisti. Anche se le case rimangono vuote, per assurdo. Il sillogismo è semplice: se è questo il motore che guida lo sviluppo di una città, le case smettono di essere case – costruzioni erette per abitarvi – e diventano strumenti finanziari. E le città smettono di essere città, ma diventano pezzi di terra che devono generare valore per qualcuno che quella città non la abita».
La frenesia immobiliare, il ricambio della popolazione
Nel decennio che è seguito all’Expo nel mercato immobiliare milanese sono stati investiti 30 miliardi di euro e si è costruito per 17 milioni di metri cubi, cioè più della somma di quanto costruito in Toscana e Piemonte, regioni che insieme totalizzano quasi 8 milioni di abitanti. Ci si immaginerebbe un boom di popolazione residente, un’ondata immigratoria di vaste proporzioni. Invece si è passati solamente da 1.345.851 abitanti del 2015 a 1.407.044 di oggi (fonte: Comune di Milano), appena 60 mila in più. E attenzione: non si tratta di una semplice aggiunta di abitanti, si tratta del risultato netto di un importante turnover.
Come ha spiegato a Tempi l’architetto scrittore milanese Gianni Biondillo,
«negli ultimi vent’anni sono andate via da Milano più di 400-500 mila persone e ne sono arrivate altrettante, se non di più. Cioè vuol dire che un terzo della città è cambiato. Ma chi è arrivato? Sono arrivati quelli con i soldi, che usufruiscono della città per brevi periodi, ci lavorano un po’ e poi se ne vanno. C’è un rapporto con la città che è fatto di consumo immediato».
Chi sono i nuovi milanesi
Chi sono questi nuovi “cittadini” danarosi? Il Financial Times, un’autorità in materia, lo spiega in poche parole:
«A partire dall’Expo, il cui direttore generale era Beppe Sala, il mercato immobiliare della città ha attratto 30 miliardi di euro di investimenti e migliaia di facoltosi residenti internazionali, attratti in Italia da generose agevolazioni fiscali. Dal 2016, l’Italia offre ai nuovi residenti un’imposta fissa sui redditi esteri senza limite che è passata da 100 mila a 200 mila euro all’anno lo scorso anno. Il paese ha attirato ricchi espatriati che hanno abbandonato il Regno Unito dopo che il governo laburista lo scorso anno ha abolito il popolare regime “non-dom” […]. Gli espatriati sono stati attratti da Milano per la sua posizione strategica ai piedi delle Alpi e per la sua “dolce vita”. Club per soci in stile New London, come Casa Cipriani e The Wilde, ospitati nell’antica dimora di Santo Versace, e ristoranti di lusso sono stati inaugurati per soddisfare i nuovi arrivati, che hanno investito denaro nel mercato immobiliare».
Un aumento del 4,5 per cento della popolazione in dieci anni (questo è l’impatto percentuale dei 60 mila cittadini in più sopra citati) non giustifica un aumento del 50 per cento del prezzo degli immobili residenziali nello stesso arco di tempo. A meno che, come è il caso di Milano, migliaia di loro (2.200 arrivati nel solo 2024, non trovo statistiche per gli anni precedenti) non siano milionari.
I veri “tagliati fuori” da Milano
Ovvio che in una città così le case popolari scarseggino, ma non del tutto. Sono 100 mila circa i milanesi che vivono in case di proprietà del Comune o dell’Aler (Regione Lombardia), se comprendiamo anche le 3.588 unità abitative occupate abusivamente. Non dubito che il loro numero lentamente crescerà, perché sono evidentemente funzionali all’economia dei servizi che si sviluppa attorno ai ricchi e alla disgregazione sociale-familiare della metropoli: CityLife, Garibaldi-Repubblica, Porta Nuova, i single giovani e gli anziani hanno bisogno di rider, piccoli spacciatori, camerieri a partita Iva, badanti e altri lavoratori precari e poco protetti per lo più stranieri.
Considerati i loro magri (o occulti) redditi, le case popolari sono destinate a loro. Restano tagliati fuori i lavoratori pubblici, i cui stipendi sono troppo alti per sperare di scalare le liste di attesa per l’assegnazione di case popolari, troppo bassi per trovare una sistemazione nel mercato immobiliare libero. Milano non riesce più ad avere i tranvieri, gli insegnanti e gli agenti di polizia di cui avrebbe bisogno perché i loro stipendi non bastano nemmeno per pagare l’affitto di casa.
La furia di Sala contro le automobili
A tutto questo si aggiungono, come fattore espulsivo di popolazione della classe media, le feroci politiche anti-automobile dell’amministrazione Sala, che fra Ztl, divieti di accesso a classi di veicoli, eliminazione di parcheggi non a pagamento, restringimento delle sedi stradali per la costruzione di piste ciclabili, contravvenzioni letteralmente a milioni (200 milioni di euro incassati l’anno scorso, mentre Roma con una popolazione più che doppia di quella di Milano sta a 145), punisce quotidianamente coloro che in città hanno bisogno dell’auto per spostarsi.
L’amministrazione comunale sa bene che non lo fanno per scarsa coscienza ecologica o egoistico individualismo: la maggior parte delle attività artigiane ha bisogno del furgone, bambini e genitori anziani si accompagnano e si raggiungono più ragionevolmente con l’auto che con altri mezzi, molti oggetti acquistati possono essere trasportati solo in auto, parte della popolazione per ragioni di età e/o di salute non può usufruire delle piste ciclabili e sicuramente non in ogni stagione dell’anno, eccetera.
Molti, come accade nel mio quartiere dove i palazzi sono privi di box, non sanno letteralmente dove parcheggiare la propria auto dopo che Sala e soci hanno piazzato divieti di sosta dappertutto ed eliminato i parcheggi esistenti. Loro sono al corrente di tutte queste realtà e argomentazioni, ma esse non li scalfiscono minimamente, perché il loro obiettivo è esattamente quello di esasperare le persone e costringerle ad abbandonare la città. Così risparmieranno in case popolari e potranno continuare a dedicarsi alle speculazioni edilizie ad alto rendimento, per una città a misura dei ricchi, dei sani, dei fighetti.
Quando la bolla scoppierà
Quella sin qui sviluppata è l’analisi del male. Molto più difficile è prospettare una soluzione. Negli anni Settanta Milano è arrivata ad avere 1 milione e 800 mila abitanti, eppure il costo delle case era in proporzione decisamente inferiore a quello attuale. Come mai? Ma perché la composizione della popolazione era molto diversa da quella di oggi, ed era diversa perché diverso era il sistema economico-produttivo: a Milano c’erano grandi manifatture, dove lavoravano centinaia di migliaia di operai, e l’edilizia seguiva la curva della domanda, offrendo soluzioni abitative compatibili coi redditi operai.
Oggi la base industriale manifatturiera di tutti i paesi occidentali – non solo dell’Italia, non solo di Milano – è in caduta libera; ci troviamo nella curiosa congiuntura economica per cui l’export italiano ha continuato a crescere di decennio in decennio, mentre l’occupazione industriale precipitava. Le città di tutto l’Occidente si sono ripensate nell’ottica della competizione delle economie dei servizi, cioè della finanza, dell’informatica, dello spettacolo, dell’industria dello svago. Di conseguenza la rigenerazione urbana ha coinciso con lo sviluppo di edilizia di alta gamma.
Per riavere la città a dimensione d’uomo bisognerebbe tornare a un modello economico dove la manifattura e il lavoro manuale in genere hanno un rilievo almeno pari a quello del passato. Questa è stata anche la promessa elettorale del ticket Trump-Vance alle presidenziali americane dell’anno scorso, ma tutti vedono quanto tempestosa e probabilmente impraticabile sia la strada che conduce al risultato ricercato. C’è da temere che il futuro ci riservi semplicemente lo scoppio della bolla. Il sindaco Sala ha deciso di restare in sella, ma dopo l’inchiesta giudiziaria in corso, comunque vada a finire, credete che i fondi immobiliari continueranno a riversare miliardi di euro su Milano? Dopodiché il nuovo modello di città bisognerà letteralmente inventarlo da zero.
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845