Il paradosso 5 Stelle: i loro sindaci sono un flop, eppure i voti crescono

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Milano 29 Dicembre – Il primo tassello da piazzare riguarda la sorpresa. Quella mancata, per intenderci. Il fatto cioè che sia scivolato via così, quasi come un fatto normale o comunque trascurabile, l’annuncio di un sindaco che non è uno qualsiasi bensì il primo cittadino (a) della Capitale d’Italia – ed anche per questo espressione delle magnifiche sorti e progressive del suo Movimento – che alla bellezza di 1271 giorni dalla scadenza del mandato annuncia tranquillamente di non volersi ricandidare. Che senso politico ha un simile avviso? In un mondo normale, avrebbe provocato due reazioni. Quella degli avversari: Virginia Raggi ha capito di aver fallito e si tira via in tempo. Quella degli amici, veri o presunti: se va avanti così rischiamo di perdere perciò meglio avvertire subito che cambieremo cavallo. In entrambi i casi non un fatto entusiasmante. Che proprio per questo si prestava ad essere cavalcato alla grande sia per randellare che per rassicurare. Invece niente di tutto ciò. Qualche sarcasmo, qualche alzata di spalle, e via andare. Perché?

Se poi – ed è il secondo tassello – guardiamo alle ragioni addotte da Virginia Raggi per giustificare la sua estemporanea uscita, il paradosso cresce. Infatti la sindaca ha detto che non si ricandiderebbe in virtù della regola pentastellata che impedisce più di due mandati. Il tutto con l’occhio rivolto al reprobo Fabio Fucci, sindaco di Pomezia, a suo tempo elogiato dal Sacro Blog di Grillo perchè «incorruttibile» secondo la definizione di lui data da Salvatore Buzzi ma poi clamorosamente finito nel girone de reprobi e cacciato dal Movimento in quanto deciso a riproporsi ai pometini. Insomma Raggi non si ricandida per dimostrare che neanche Fucci può farlo. Che per un verso è un po’ come usare il cannone per uccidere le mosche e dall’altro conferma la letale caratteristica dei grillini: valgono più le regole interne che gli interessi degli amministrati.

Terzo tassello. Ad attaccare Virginia stavolta è il primo cittadino di Parma, Federico Pizzarotti, nel passato anche lui star del MoVimento e poi detronizzato come si conviene secondo inesorabile parabola a cinque stelle Pizzarotti polemizza con la potente collega perché costei ha chiesto di poter traferire 350 tonnellate di rifiuti romani nell’inceneritore parmense: quello che Pizzarotti giurava di non volere, che invece poi ha autorizzato senza battere ciglio e che adesso brucia montagne d’immondizia. Assieme ad un bel po’ di coerenza.

La replica della Raggi è stata sublime: «Queste cose me le doveva dire in faccia, come faccio io». Sorge spontanea la domanda: ma perché, in quel caso forse il Campidoglio avrebbe smaltito in loco i rifiuti o dirottato altrove la richiesta? No? E allora…

Che mosaico emerge mettendo insieme questi tasselli? Viene fuori un disegno, per così dire, double face; contenente una doppia chiave di lettura. Da un lato, spiega che l’Invincibile Armada dei sindaci, che negli auspici doveva essere la testa d’ariete dei Cinquestelle capace di sventrare le casematte del Potere, al dunque si è dimostrata poco più di una cerbottana che spara palline di carta. Pizzarotti e altri sono fuori gioco; Raggi e Appendino si sono incartate e litigano con la loro stessa maggioranza; sotto le amministrazioni pentastellate Roma e Torino non sono migliorate: anzi. Dal lato opposto, questo che potrebbe assomigliare ad uno sfacelo in termini di leadership, competenza amministrativa e affidabilità politica, di fatto non sposta di un millimetro – stando a sondaggi anche recentissimi – il peso specifico dei grillini. Che non recedono e al contrario paiono consolidare il loro fantasmagorico 30 per cento, decimale più decimale meno. Grillo e Casaleggio si sono inabissati smentendo le regole minimali della comunicazione politica e di guida di un movimento o partito; Luigi Di Maio gira l’Italia, concede interviste e, in alcuni casi, inanella gaffes. Poco importa: la forza grillina non scema. Il che comporta alcune considerazioni fondamentali per la campagna elettorale che si apre. I Cinquestelle non sono investiti dall’obbligo di dimostrare di saper governare. Chi li vota lo fa seguendo una logica totalmente diversa, per così dire al contrario: non vuole mai più vedere le altre forze politiche in posizione di responsabilità. Forse i grillini non sono il massimo, è il ragionamento di molti, ma gli altri: Pd (soprattutto); FI; Lega e così via, hanno scassato l’Italia e non li vogliamo neanche più sentir nominare.

Quelli che l’M5S lo contrastano e lo attaccano sotto il profilo della inesistente credibilità, capacità, esperienza, preparazione, pensando così di indebolirlo, prendono un abbaglio: gli italiani che votano Cinquestelle se ne sbattono di quelle categorie. E quelli che si astengono non credono che la risposta giusta sia nel far tornare in auge i partiti tradizionali. E’ il plastico panorama dell’antipolitica. La competizione tra schieramenti sulle ricette da mettere in campo per risolvere il problemi è totalmente svuotata di senso e praticabilità. Anche il fatto che alla fine possa essere il centrodestra il vincitore delle elezioni di marzo 2018 non è contradditorio con un simile quadro. Basta ricordare che l’antipolitica è stata la bandiera issata da Berlusconi e Bossi nel ‘94 per annichilire la gioiosa macchina da guerra occhettiana. Ora si gioca a parti rovesciate: ma lo schema non sembra cambiato.

Carlo Fusi (Il Dubbio)

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