Grave errore dare per spacciati i movimenti populisti

Attualità

Milano 30 Luglio – Alcuni osservatori della politica italiana, con dati economici in lieve miglioramento alla mano, hanno iniziato a ipotizzare una frenata dei partiti populisti. La politica però in realtà non è riassumibile in dati macroeconomici, ma si alimenta di molti fattori, inclusi quelli irrazionali, identitari ed emotivi. Il Regno Unito era il paese che cresceva maggiormente in Europa quando, a sorpresa, gli elettori hanno rovesciato i sondaggi votando in maggioranza per il “Leave”. Gli Stati Uniti d’America avevano ricominciato a crescere, almeno in termini di PIL, quando Donald Trump ha trionfato, anch’egli a sorpresa, alle urne nel Novembre 2016.

L’aumento delle esportazioni, dei consumi o della produzione industriale non sono un elemento affidabile per sondare gli umori della politica. Un leggero miglioramento delle condizioni economiche non riconduce automaticamente gli elettori nella casa dei partiti tradizionali perché le problematiche che il welfare state e le società contemporanee si portano dietro sono ben più complessi delle percentuali economiche. Come sostiene lo storico britannico Niall Ferguson ci sono quattro ingredienti (più un leader che funzioni politicamente) alla base della “rivolta populista”, cioè della radicalizzazione dell’offerta politica e dell’allontanamento dai vecchi partiti. Andiamo a vedere se queste variabili funzionano per l’Italia.

a) Aumento dell’immigrazione. Questo è forse l’indicatore più semplice da misurare perché l’immigrazione registra un aumento costante dal 1993, con picchi di sbarchi che si sono verificati negli ultimi tre anni (in media 143mila migranti sbarcati in Italia tra il 2014 e il 2016). Riportiamo l’immagine con dati aggiornati al 2011, tenendo conto che nel 2013 la popolazione straniera regolarmente residente in Italia superava il 9% dei residenti totali. L’immigrazione è un argomento politico potente su cui convogliare molti problemi: disoccupazione, welfare, sicurezza. Inoltre, è facilmente visualizzabile (gli sbarchi, i mendicanti ecc) e mediatizzabile (i crimini, il disagio, il degrado di alcune zone urbane).

b) Aumento delle disuguaglianze. In Italia è una questione prevalentemente generazionale. Secondo l’OCSE, l’Italia ha la spesa pensionistica (circa il 16 per cento del pil, il doppio della media) e la pressione contributiva (33 per cento del salario) più alte al mondo. Come se ciò non bastasse, anche il welfare è totalmente sbilanciato verso i pensionati: secondo i dati dell’Istat esposti in audizione alla Camera, “l’84 per cento degli individui che usufruiscono delle principali prestazioni assistenziali previste dal sistema di welfare italiano è costituito da persone anziane.”  I dati Istat dicono che complessivamente la povertà negli ultimi anni è aumentata, ma ne è cambiata anche la composizione: un minorenne su dieci (10 per cento) vive in povertà assoluta, il triplo del 2005; i poveri sono triplicati poi nella popolazione tra i 18 e i 34 anni (dal 3,1 per cento del 2005 al 9,9 di oggi) e sono passati dal 2,7 al 7,2 per cento nella fascia tra i 35 e i 64 anni. L’incidenza della povertà diminuisce invece tra gli over 64, la fascia d’età che segna il valore più basso, il 4 per cento. Un trend confermato dalla Banca d’Italia: “Tra la fine degli anni 80 e il 2014, l’espansione della quota di popolazione a basso reddito si è accompagnata con un sostanziale cambiamento della sua composizione, più che dimezzandosi tra le famiglie di pensionati (dal 40 al 15 per cento), salendo tra quelle dei lavoratori dipendenti (dal 14 al 20 per cento) e dei lavoratori autonomi (dal 12 al 15 per cento)”. Per concludere: “Il disagio economico è più elevato per i membri delle famiglie più giovani. Considerando tutti gli appartenenti alle famiglie con capofamiglia di età non superiore ai 30 anni, oltre una persona su tre è in condizione di basso reddito (solo una su dieci alla fine degli anni ottanta)”. Come il grafico sottostante mostra l’unico reddito in aumento è quello dei pensionati.

c) La percezione di una classe politica corrotta e, in generale, il livello di sfiducia verso le istituzioni pubbliche è in costante crescita. Basta vedere il grafico sottostante: la fiducia media degli Italiani verso il Parlamento è al 3%, verso i partiti poco sopra il 2%, verso le istituzioni locali sotto il 4%. La campagna contro la casta, basta vedere le dichiarazione dei politici italiani contro i vitalizi, i professionisti della politica e via dicendo, è un tema ancora molto forte e presente. Simili gli orientamenti nei confronti dell’Unione Europea, verso la quale il collo di fiducia è stato verticale: erano il 75% nel 2008 coloro che avevano fiducia nelle istituzioni europee, solo il 25% quelli di oggi.

d) La stagnazione economica. La bassa crescita che può accompagnare il Paese ancora per anni comprimendo sempre di più le opportunità per le fasce di popolazione più deboli o meno garantite dal sistema statale. Qui i grafici potrebbero essere molti, ma quelli più rappresentativi sembrano essere quello del PIL pro capite reale (in costante diminuzione il reddito disponibile tra il 2008 e il 2014, con una ripresa molto lieve negli ultimi tre anni


e quello della disoccupazione (che, come noto, colpisce con punte fino al 37% i giovani sotto i 25 anni) che dopo otto anni di crisi è ancora superiore all’11%.

Per concludere l’autore rimanda ad un interessante studio del think-tank EPICENTER che mostra come il voto ai partiti anti-establishment nell’Unione Europea sia passato dal 2004 al 2017 dal 7% al 20%.

Far passare l’idea che il populismo (di destra e di sinistra) sia un fenomeno di passaggio, così come la crisi dei partiti moderati, solo perché in alcuni paesi (Olanda, Francia, Spagna) i partiti anti-establishment non abbiano vinto le elezioni è sbagliato. Il trend populista è in constante crescita da anni e le variabili che ne sono alla base continuano ad indicare che il terreno per i movimenti anti-establishment e radicalizzati è ancora molto fertile. L’impressione è che siamo di fronte ad una trasformazione delle democrazie che è soltanto nella sua fase iniziale e che l’agenda politica dei prossimi anni sarà sempre più dettata dai partiti “polarizzati” e dalle loro tematiche (protezione, identità, spesa sociale). Senza una risposta dei partiti di governo ai quattro ingredienti che informano la protesta sarà estremamente difficile arginare questi fenomeni politici.

Sarà, inoltre, interessante notare come l’agenda “populista” varierà da paese a paese a seconda delle tradizioni politiche locali, perché gli ingredienti alla base del successo dei partiti polarizzati saranno anche gli stessi ma le risposte che i partiti anti-establishment potrebbero dare a queste problematiche potrebbero essere molto diversi tra loro una volta conquistate le leve di comando.

Resta una certezza: l’ondata populista non è finita e non finirà a breve. La loro agenda viene dibattuta (e inseguita) tutti i giorni dai governi e dai partiti tradizionali. La politica italiana, in questo, è un benchmark.

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