Nel 1942 la Marina degli Stati Uniti lanciò un programma, innovativo e quasi fantascientifico ai tempi, di bersagli teleguidati per l’addestramento dell’artiglieria contraerea. Il capitano Delmer Fahrney pensò di aggiungere la TV al bersaglio, facendolo volare autonomamente e non più trainato come avveniva prima, e di utilizzarlo per volare contro le navi nemiche. Dotato di una telecamera sviluppata dal capo scienziato Dr. Vladimir Zworykin di R.C.A. (Radio Corporation of America), il bersaglio teleguidato poteva trasmettere l’immagine a un ricevitore su una navefin a quasi 50 miglia di distanza. Durante le prime prove, dal ponte di comando del Cacciatorpediniere ove era imbarcato, il capitano Delmer Fahrney comandante della Naval Air Modification Unit, probabilmente infastidito dal forte ronzio che il bersaglio emetteva in volo, esclamò: “I’m the queen bee with a drone around me” Sono l’ape regina con un fuco intorno. Da allora il sistema si chiamò Drone. Nel settembre del ’44 venne formata la Torpedo Drone, nota come STAG-1, per intraprendere quasi 50 missioni contro le installazioni giapponesi nelle Isole Russell. Il 50% degli attacchi furono giudicati un successo. Radio Tokyo commentò gli attacchi etichettandoli “Kamikaze Americani”. I giapponesi non si erano resi conto che gli aerei non avevano piloti! Erano droni.
I sistemi televisivi di Zworykin vennero utilizzati anche in Europa nel Progetto Afrodite. Alcuni B-17 e PB4Y-1 Liberator in disarmo furono convertiti in Droni “Weary Willie” radiocomandati e sviluppati congiuntamente dall’Esercito e dalla Marina. Dotati di telecamere TV nel muso e caricati dalla cabina di pilotaggio alla coda con un massimo di 10.000 chili di TORPEX, i Willies sarebbero stati pilotati sui bersagli nemici con il telecomando. Prima, però, erano necessari dei piloti a bordo per farli arrivare in sicurezza vicino all’obbiettivo. A quel punto l’equipaggio di volo avrebbe inviato il controllo a un altro aereo, per poi lanciarsi col paracadute e salvarsi. Per facilitare l’uscita e facilitare il carico di esplosivi, gli ingegneri arrivarono al punto di tagliare il tetto degli aerei. Il bombardiere con la cabina di pilotaggio aperta, un velivolo unico nel suo genere, fu soprannominato “Roadster” dagli equipaggi.
Afrodite era un progetto ambizioso che soffrì della rivalità intra-servizio tra la Marina, sviluppatore dei dispositivi per il controllo remoto e l’armamento, e l’Esercito, che rivendicava l’appartenenza della maggior parte degli aerei coinvolti e che stava lavorando sui propri dispositivi e sistemi elettronici. I risultati si rivelarono disastrosi. Il 12 agosto 1944,in una missione che intendeva colpire un sito missilistico nazista, l’equipaggio di due uomini di un drone PB4Y Liberator rimase ucciso quando il loro aereo esplose a mezz’aria sopra la Contea di Suffolk, Inghilterra. La causa rimane sconosciuta, ma si ritiene dovuta a una delle scatole nere su cui i servizi hanno litigato: l’interruttore elettronico dell’armamento dell’esplosivo. Uno dei membri dell’equipaggio morti era il Tenente di Vascello Joseph Kennedy Jr., figlio dell’Ambasciatore USA nel Regno Unito e fratello del futuro Presidente John F. Kennedy.
Questa la storia del perché i droni si chiamano droni. E fino a pochi anni fa, i droni si chiamavano droni. In tutto il mondo. E tutti con quel termine omnicomprensivo intendevano un oggetto volante senza pilota a bordo, radio tele comandato. Facile. Ora non più. Sono intervenuti i “Regolatori”, che per regolare la materia, intanto gli hanno cambiato il nome. Cosicché adesso nel mondo i droni si chiamano RPA (remotely piloted aircraft), ma possono essere indicati come UAV (unmanned aerial vehicle), UAS (unmanned aerial system) o sistema aereo senza pilota, RPV (remotely piloted vehicle), ROA (remotely operated aircraft) o UVS (unmanned vehicle system), mentre in Italia li chiamiamo APR,Aeromobile a Pilotaggio Remoto.
Ma come fanno i droni (pazienza, continuiamo a utilizzare questo termine antico e facile) a volare? Nel senso di occupare porzioni di spazio aereo in un ambiente misto, qual è il cielo? Ove già volano svariati modelli di aeromobili (aerei, elicotteri, alianti, ultraleggeri, missili, mongolfiere, palloni spia e lanterne cinesi) e un’infinità di volatili? I Regolatori questo particolare ancora non l’hanno regolato. Nonostante convegni in tutte le parti più ameni del pianeta terra, relazioni con infinite premesse e raccomandazioni e assicurazioni, a tutt’oggi uno straccio di norma operativa non l’abbiamo letta. Però nel frattempo, poiché tutti i Regolatori si sono fatti convinti che gli RPA UAV UAS RVP ROA o UVS, per noi italiani APR, decollano e atterrano solo in volo verticale, è stato coniato un nuovo termine per indicare l’infrastruttura a terra destinata agli RPA UAV UAS RVP ROA o UVS, per noi italiani APR, cioè il Vertiport, in italiano Vertiporto.
Per la verità, sin dalle sperimentazioni iniziali i droni erano aeroplani con le ali modificati nella Governance del volo. Tutt’oggi i droni che trasportano anche per lunghe distanze pay load importanti, sono ad ala fissa. Il fatto che oggi un’industria un po’ artigianale e molto commerciale abbia progettato piccoli droni per effettuare il taxi aereo dagli aeroporti alle città, attività di volo ampollosamente chiamata Urban Air Mobility e Advanced Air Mobility, ha focalizzato l‘attività dei Regolamentatori solo su questa iniziale e modesta possibilità di sviluppo. E se un domani non molto lontano avremo RPA UAV UAS RVP ROA o UVS, per noi italiani APR, utili al trasporto di molti passeggeri e tanta merce, saremo costretti solo al decollo e atterraggio verticale, o potremmo ipotizzare droni (a me piace chiamarli così) di grandi dimensioni e grandi capacità di carico e autonomia che utilizzano piste di volo molto simili alle attuali? Ancorché diversamente segnalate e strumentate? Tempo fa ai miei studenti chiesi di immaginare e progettare il trasporto aereo del futuro prossimo venturo, in ipotesi nel 2050, come operato solo da droni di ampie capacità. In pratica di immaginare un sistema senza più aeromobili pilotati da piloti, ma solo droni senza equipaggio. E chiesi di progettare anche un minimo di infrastruttura a terra asservita ai droni e regole nuove per tale attività. Rimasi sconvolto. I miei studenti, allora diciassette/diciottenni, partirono dal perché il drone si chiama drone. E trovarono nuovi termini. I loro termini. Non più Aeroporto, Droneporto, Vertiporto, ma “HIVE” Alveare, non più Finger ma Sting, non più Vettore Aereo ma BeeKeeper, non più Pista orizzontale ma Big Flower, non più pista verticale ma Flower, non più Fuel ma Nectar, non più TWR ma Smoke, non più Contenitore ma Pollen, non più Regolamentazione ma WASP, non più Anti Virus, ma Queen for Hive e Strow for Drone e così via. Termini loro, degli studenti, comprensibili a loro. All’inizio non lo compresi integralmente, poi tempo dopo, quando fui incaricato di svolgere una prolusione sul cinquantesimo anniversario del primo uomo sulla luna, l’ho capito. Il Centro di Controllo Missione Christopher C. Kraft Jr. (Mission Control Center – MCC) della NASA a Houston all’epoca dell’Apollo11, chiamato allora Manned Spacecraft Center (MSC), era composto da tecnici e ingegneri la cui età media non superava i ventisei anni. Ragazzi. Ragazzi che coordinavano Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins, il Columbia e il Modulo di Comando (CM), il Modulo di Servizio (SM) e il Modulo Lunare (LM) Eagle. Ragazzi. Qual è oggi l’età media degli specialisti che costituiscono l’insieme dei componenti delle mille commissioni, comitati e gruppi di lavoro che trattano gli RPA UAV UAS RVP ROA o UVS, per noi italiani APR, e i Vertport, in italiano Vertiporto?
Le regole. EASA, European Aviation Safety Agency, ha emanato una Leaflet, letteralmente un volantino, in cui si ipotizza un nuovo tipo di spazio aereo, unmanned (senza equipaggio), all’interno del quale le operazioni con i droni sono consentite con l’ausilio di servizi specifici quali l’identificazione elettronica trasmessa in rete, le informazioni geografiche (GEO-awareness), la possibilità di richiedere l’autorizzazione per il volo e le informazioni sul traffico aereo. Tutto ciò dovrebbe essere digitale per consentire l’integrazione in sicurezza dei droni nello spazio aereo europeo. L’U-space, in pratica, è un insieme di servizi, forniti in modo digitale e automatizzato, all’interno di alcune porzioni dello spazio aereo. EASA, nel volantino, individua un piano colori cui gli Stati membri devono adeguarsi rappresentando le proprie Geozone sulle mappe, che indicano la violabilità, o meno, in quello spazio alle operazioni dei droni. Rosso, ove le operazioni sono vietate. Giallo, ove le operazioni sono limitate e soggette al soddisfacimento di una serie di condizioni imposte per le zone pertinenti. Verde, ove le operazioni sono soggette a requisiti più semplici. Blu, che identifica lo spazio aereo unmanned. Ebbene, nel volantino lo spazio blu copre lo spazio di una città, ove il rosso qualifica la Geozona 1 sopra gli aeroporti, la Geozona 2 sopra insediamenti industriali sensibili, la Geozona 3 sopra edifici di culto e la Geozona 4 i Musei. Su questi insediamenti è vietato volare con i Droni. La Geozona 5 è a tutela degli ospedali, ove si può operare in modo ristretto e regolamentato, mentre zone verdi sono identificate con rotte operativamente utilizzabili. Il sistema nelle intenzioni di EASA, serve a mitigare il rischio di collisione tra aeromobili con equipaggio e UAS e i conseguenti rischi in aria e a terra; consente un uso efficiente ed appropriato dello spazio aereo; consente di effettuare in modo sicuro operazioni con droni in modo denso e complesso. E poiché U-space è una zona geografica per droni, essi saranno autorizzati solo in questo spazio aereo con l’assistenza dei servizi U-space. Non tutte le Geozone saranno U-space. L’U-space non sarà distribuito ovunque. Sarà data priorità alle aree con un ampio volume di operazioni previsto (ad es. le aree urbane). I regolamenti U-space non si applicano ai droni giocattolo e agli aeromodelli. Infine il volantino afferma che un aeromobile con equipaggio può operare nello spazio aereo U-space. È chiaro che ogni ipotesi di regolamentazioni generiche suscita decine di domande oppositive, ma volendo stare nel positivo, forse sarebbe stato utile inserire fra le Geozone rosse anche le carceri, mentre non si capisce come può un aeroporto essere vietato alle operazioni con i droni se proprio dagli aeroporti i droni dovrebbero operare verso la città. E poi, se nello spazio aereo U è possibile far volare aeromobili con equipaggi, ma si vede protetto un elicottero in una bolla rossa, allora la confusione discretiva fra il permesso e il vietato vacilla. Questi e mille altri problemi saranno posti a carico di nuovi soggetti, i Provider o USSP (U-Space Service Provider),che certificati da EASA, costituiscono il sistema stesso di controllo del traffico aereo dei droni.
Non se ne esce. Il coraggio burocratico per individuare aree impermeabili al traffico manned (presidiato o controllato) rispetto a quello unmanned deve partire proprio dalla priorità del traffico unmanned rispetto al resto. E bisogna che si parta non dalla commercializzazione di droni taxi, progettati per il trasporto di uno o due passeggeri che dagli aeroporti (?) volano senza equipaggio verso il centro città, ma dal trasporto di merci prioritarie, organi espiantati e pronti al trapianto, da ospedale a ospedale, anche fra città distanti fra loro. Bisogna individuare percorsi non consentiti al sorvolo di voli in VFR, e ai droni consentirli. Bisogna riconvertire piloni utilizzati per radio segnali in cui far effettuare in automatico la ricarica o la sostituzione delle batterie dei droni. Bisogna partire da bisogni prioritari, quale la consegna di beni in zone non facilmente serviti da reti di distribuzione per carenza di viabilità ricettiva. Il taxi viene dopo, quando questo sistema comincia a funzionare e quando la mobilità con droni comincia a poter essere effettuata non a favore di pochissimi, ma di tanti. Con droni capienti che asservono alla mobilità di molti, non di pochi. Poi vedremo come fare per i droni taxi. Poi.
Giombattista Scapellato
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