LUCA RICOLFI La pericolosa deriva del pensiero dominante – Parole al bando

Attualità

In principio fu la parola “negro”, a dover capitolare. Anche se in molti la usavamo in modo neutro, ci venne consigliato di sostituirla con parole come “nero” o “di colore”. Poi toccò a parole decisamente innocenti, come vecchio, cieco, bidello, donna di servizio, che nessuno si sognava di usare in modo dispregiativo. Ci venne detto che dovevamo sostituirle con parole nuove: “anziano”, “non vedente”, “collaboratore scolastico”, “colf”. Solo Natalia Ginzburg ebbe l’ardire, dalle colonne dell’Unità, di denunciare l’ipocrisia del nuovo lessico.
Poi, però, è intervenuto un salto di qualità. Sugli aerei, si cominciò a bandire il classico saluto “signore e signori, benvenuti a bordo”, perché sì cavalleresco (prima le signore), ma ahimè poco inclusivo (e se a bordo ci fosse qualcuno che non si sente né maschio né femmina?). Nel mondo dell’elettronica si cominciò a bandire espressioni come jack maschio e jack femmina (chiaramente sessiste), nel mondo dell’informatica parole come architettura master-slave (chiaramente colonialiste), in biologia espressioni come evoluzione cieca e elefante nano (evidentemente poco rispettose dei non vedenti e delle persone di piccola statura), nelle relazioni internazionali espressioni come black list (lista nera), da sempre usata per elencare persone o organizzazioni pericolose. E il racconto potrebbe proseguire parlando dell’uso della schwa, della guerra dei pronomi, e di innumerevoli amenità consimili. Il politicamente corretto delle origini era diventato un ricordo lontano, soppiantato, dal più moderno follemente corretto.

Ora è in atto qualcosa di più. Qualcosa di più profondo e inquietante. La pretesa di insegnarci come parlare, e di colpevolizzarci se non parliamo come dovremmo, ha preso una piega più sottile e più intollerante. Quel che si pretende da noi non è solo che usiamo le parole corrette, ma che facciamo dei discorsi corretti. E, attenzione, il giudizio di correttezza non tocca soltanto i contenuti dei nostri discorsi, ma persino il modo in cui altri potrebbero leggerli o interpretarli. È come se, per evitare di urtare la suscettibilità degli innumerevoli interlocutori che potrebbero incontrare le nostre parole, noi fossimo tenuti a blindare il senso generale del nostro discorso, ossia garantire che nessuno mai potrà trovarvi la minima venatura di scorrettezza. Tutto è cominciato con il Covid e con la “premessite” (copyright Guia Soncini), per cui qualsiasi ragionamento anche blandamente critico o dubitativo sul vaccino doveva essere preceduto da una dichiarazione di fede vaccinale (sono vaccinato, ho fatto la terza dose, i miei figli sono tutti vaccinati). Poi le cose sono ulteriormente degenerate con la guerra in Ucraina, e la conseguente necessità di premettere che si detesta Putin, che c’è un aggredito e un aggressore, che il popolo ucraino ha diritto di difendersi dall’invasore. Ora ci sono segnali che qualcosa del genere sia in atto sul clima, dove qualsiasi discorso sull’ambiente deve adoperarsi per schivare l’accusa di “negazionismo climatico”.

Ma non è ancora tutto. Il “caso Giambruno” ha avuto almeno il merito di illustrare a che punto è arrivata la degenerazione del discorso pubblico. Ormai né il pubblico né i media paiono in grado di accettare che “una rosa è una rosa è una rosa”, per dirla con Gertrude Stein. Se (come Giambruno) dico che è meglio non ubriacarsi in discoteca, non sto dicendo che se ti stuprano è colpa tua. Se dico che il numero di femminicidi è in calo (come potrebbe osservare uno statistico), non sto invitando ad abbassare la guardia conto la violenza sulle donne. Se dico che gli stupri sono più frequenti nei paesi considerati più civili, non sto auspicando passi indietro in materia di parità di genere. Quel che questi esempi illustrano, è una drammatica perdita di facoltà mentali basilari, come l’uso della logica, la distinzione fra i livelli di un discorso, la capacità di separare le affermazioni fattuali da quelle normative.

Non è una deriva completamente imprevista o imprevedibile. L’idea che ogni discorso, a partire da quelli oggettivati in un testo o in un’opera, non sia prigioniero per sempre nel senso che gli ha dato l’autore, ma sia aperto alla interpretazione dei suoi destinatari, era già stata avanzata negli anni ’60 da Umberto Eco in Opera aperta (1962) e da Roland Barthes in La morte dell’autore (1967). Ma qui siamo andati molto oltre, non siamo di fronte ai meravigliosi, sofisticati, giochi dell’interpretazione e dell’esegesi, ma al gioco truccato della superficialità, dell’ignoranza e della faziosità. Più che meditare su Eco e Barthes, forse dovremmo – più umilmente – ricuperare un detto attributo a Massimo Troisi: «Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu». Basterebbe questo, in un attimo, a disinquinare il discorso pubblico.

Luca Ricolfi

www.fondazionehume.it

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