Delenda Russia riallinea liberalismo e democrazia

Attualità RomaPost

In relazione a Democracy in the 21st century J. Biden’s Summit di Marco Mayer

La realpolitik illustra le posizioni di forza internazionali. Scomodare l’idea di democrazia a riguardo è fuorviante.

Il vertice sulla democrazia di dicembre 2022 appare un ritorno all’alleanza dei volenterosi di bushiana memoria. In questo modo i democratici americani riprendono il filo della politica dei repubblicani interventisti, tesa a spicciare le cose oltre l’inutilizzabilità dell’Onu. Se i repubblicani si appoggiavano alla causa scatenante dell’11\9 ed alla geofilosofianewcon, perfettamente incastrabile nell’idea di una globalizzazione politica dopo quella economica, la Casa Bianca attuale celebra, con la causa scatenante Ucraina, il nemico rooseveltiano, il fascismo. Paradossalmente i due campi in lotta nell’attuale guerra calda usano la clava dell’accusa di fascismo come non fu nemmeno durante la guerra fredda. Durante quel periodo l’Urss accusava l’Occidente di fascismo, mentre la risposta occidentale era democrazia. Da democrazia vs fascismo a fascismo vs fascismo.

Il problema è che tutto il mondo soffre al momento di un deficit democratico. In primis nelle potenze orientali che sono scivolate, in quest’ultimo scorcio di globalizzazione, nello status di demoture. L’Occidente, nondimeno, in Catalogna e ad Hong Kong ha subito una grave debacle di rispettabilità democratica. Non ha rispettato le libertà istituzionali della regione spagnola; è rimasta a guardare la repressione violenta dell’eredità centenaria dell’animo democratico della principale piazza borsistica asiatica. L’America è rotta in due parti politiche che non si riconoscono legittime l’un l’altra. L’Europa arranca sulla difficoltà di armonizzare costruzione burocratica ed elezioni popolari. L’UK, proseguendo un iter democratico dovrà rinunciare a tutta l’Irlanda e trasformarsi in Divided Kingdom. Il resto del mondo, a parte qualche eccezione, è lontano da un approdo democratico. Bisognerebbe forse prendere atto che il processo di democratizzazione è connesso all’europeizzazione del mondo, vale a dire, resta un retaggio applicabile solo con processi postcoloniali. Se la trasformazione profonda postcoloniale fosse impossibile, bisognerebbe prendere atto del rifiuto della costruzione democratica nel mondo arabo, africano e asiatico. Anche il Sudamerica, a parte eccezioni, ha grandi difficoltà ad abbracciarla sostanzialmente.

Al summit per la democrazia ci doveva essere, in una prima lista, mezzomondo. Tutta l’Europa, anche quella improbabile, come la Serbia o quella contesa, come Ucraina e Moldavia, o quella onestamente estranea e persa, come Armenia e Georgia. Gli isolotti insignificanti oceanici; l’Asia persa, Mongolia, quella infida, Iraq e Pakistan, quella impossibile, come il Nepal, quella enigmatica, come India e Indonesia. Il Sudamerica impossibile come la Colombia e l’Africa in vendita al miglior offerente, con l’esclusione dell’Algeria. figuravano tra i regimi non liberi per la Fin da subito non c’erano Ungheria, Turchia, Bosnia, Egitto, Cuba,Nicaragua, Venezuela, Russia e Cina. Non c’era sostanzialmente il mondo arabo (Arabia Saudita, Giordania, Qatar, Emirati Arabi Uniti)e non c’era Israele. Poi sono scomparse Serbia, Algeria, Bolivia, Tunisia ed è ricomparsa Israele. In compenso c’è Taiwan. Alla fine, i magnifici 104, di cui 30 con meno di un milione di abitanti sono 39 europei, 27 americani 21 asiatici e 17 africani. 77 regimi democratici, 31 mezzo democratici, 3 dittature, Angola, Iraq e Congo(Freedom House).

L’esclusione di due paesi Nato, Turchia e Ungheria, appare molto pesante e manifesta subito il vulnus democratico. Gli Usa, infatti, per dinamiche regionali sono contrari ai responsi delle urne di Budapest ed Ankara, ma non si avvedono che così il quadrante balcanicomediorientale diventa un campo minato tutto ostico dalla Mitteleuropa all’Eufrate. Onestamente a Washington interessano alleanze strategiche, non il progresso democratico di paesi corrotti. Non c’era niente di male a dirlo bushanamente, ma il presidente Biden non voleva passare da scemo più scemo. Tutto il lavoro, allora, di Freedom House, Amnesty International, Human Rights Watch, Transparency International appaiono una foglia di fico. Come nota Mayer, dalla guerra all’Iraq del 2003, gli Stati Uniti sono scesi dal piedistallo della libertà. Eppure, allora potevano ancora vantare l’export di democrazia. Molto peggio è avvenuto con l’export di caos in Siria e Libia, fatti di cui ancora non riescono a scusarsi neanche con loro stessi. Secondo Mayer, quattro fattori, globalizzazione, digitale, pandemia, clima hanno indebolito le democrazie. Quattro fattori, reali e mediatici, decisi, attuati e teorizzati nel mondo libero. Il primo è stato un enorme errore di valutazione. Si è imparato che la rivoluzione economica, in contesti non occidentali, non promuove libertà; vale la pena di ricordarlo; quindi, di non regalare ma farsi pagare l’accesso alla libertà dei mercati. Il secondo è connesso al primo. Anche le dittature possono condividere e diffondere autocritiche occidentali. L’Urss lo faceva continuamente e non si comprende perché ciò che era propaganda oggi sia fake. Il terzo o il quarto sono questioni di dibattito occidentale che all’avanzata o alla ritirata della democrazia né aggiungono né tolgono.

Il grande rischio per la democrazia sorge all’interno dei paesi liberi e proprio dove questi sono più forti. L’impatto tecnofinanziario ha concentrato le ricchezze e donando loro poteri mai visti prima. Tra questi, poteri privati più forti di quelli pubblici e statali. La corsa alla privatizzazione della politica estera, in nome dell’efficienza e dell’efficacia, nell’insussistenza delle comunità umane e nella possibilità di pensare alle alleanze più bizzarre (si pensi alla politica turca del Re Sole) può scardinare secoli di impostazione delle diplomazie. Gli avversari delle democrazie hanno il vantaggio di un solido retaggio del potere con popolo formatosi nei millenni e nei secoli. Non vi si può imporre la democrazia se non con la vittoria militare lunga e sofferta anche perché i loro popoli non desiderano libertà e democrazia. La loro potenza internazionale è assai più debole perché tutta dipendente dal cliente occidentale sia come fornitore di energia che di beni di consumo.

Per parafrasare Antonov e Qin, ambasciatori russo e cinese negli States (Non c’è bisogno di preoccuparsi della democrazia in Russia e in Cina. Alcuni governi stranieri farebbero meglio a ciò che sta accadendo nella loro casa), è inutile preoccuparsi. Mosca e Pechino, criticano il modello americano ma lo imitano; cercano di limitare l’egemonia Usa sul mondo che in effetti accusa sconfitte quando cerca di cambiare inutilmente l’animo orientale, slavo, arabo, uranico e turanico. Con una accorta politica estera di realpolitik, le grandi dittature perderebbero le risorse su cui si sono innalzate. Non è possibile d’altro lato impedire loro di perseguire obiettivi regionali, che in realtà sono molto limitati. Le teorizzazioni russe, ad esempio, della democrazia sovrana e del russkimir sono introversamente rivolte all’interno di quel mondo; né si comprendono le ipotesi che vorrebbero la Russia, in piena azione quasi suicida contro l’Ucraina, in procinto di attaccare l’Europa. Definire democrazia che funziona, quella cinese, è poi cosa ridicola

L’acrimonia verso i repubblicani in un’America spaccata a metà spinge ad attaccare i sostenitori della pausa militare americana. In effetti gli Usa, se non avanzano, sono condannati a rotte ignominiose tipo Vietnam, Iran, Afghanistan. Washington però ha il problema sostanziale della difficoltà ad usare le proprie forze armate all’estero, per l’opposizione interna dell’opinione pubblica, né la soluzione droni da sola ha dato risultati soddisfacenti. La situazione venuta a crearsi nel conflitto ucraino, un po’ preparata, un po’ determinatasi inaspettatamente, è perfetta perché permette agli americani di combattere tramite terzi volenterosi. L’opportunità di sconfiggere la Russia in casa è un obiettivo che nelle settimane si è venuto concretizzando con il sogno di frantumare in pezzi l’impero sarmatico. Ed è questo il tema che a fine anno si stenderà sul tappeto di un summit pensato due anni fa in tutti altri termini. A dicembre se il conflitto sarà finito, ad un’Ucraina parzialmente distrutta corrisponderà una Russia molto ammaccata e ancora sotto un lungo attacco internazionale. Non fosse finito, i due termini della questione sarebbero ancora più gravi. Per gli Usa in entrambi i casi brillerebbe sempre di più l’occasione per chiudere uno scontro iniziato 80 anni fa. Se poi gli Usa avessero la fortuna di una seconda Pearl Harbour a Taipei, potrebbero umiliare militarmente la Cina, balzando in cima al mondo. A quel punto tutti i rischi di crollo della democrazia interna occidentale si concretizzerebbero definitivamente in un nuovo export di libertà liberata sullee nelle società occidentali, un salto non di qualità ma nel vuoto di consumi, comportamenti e pensieri indotti.

Facile prevedere che al summit il dibattito sulla democrazia passerà in secondo piano o si limiterà ad alimentare il furore contro il fascista Putin ed in sottordine contro il fascista interno. È questo il segno di un imbarbarimento del linguaggio politico, della diplomazia e delle relazioni internazionali. È comprensibile che, a corto di argomenti, nella confusione trans della mischia multimentale di propaganda interna, Putin usi i termini della guerra patriottica a sprono per dare respiro di grande potenza ad una realtà in realtà regionale per popolazione e risorse. È invece inaccettabile che chi si fa simbolo di libertà e democrazia usi ancora gli archetipi d’inizio 900. Nel contesto democratico i popoli che possono permettersi e vogliono i diritti difficilmente a lungo seguiranno supini lo schema di Yalta che ha già visto saltare due dei suoi grandi protagonisti. Gli Usa si stanno imponendo come esportatori di liberalismo, in senso lato, forzato e di flussi commerciali di persone e mezzi controproducenti per l’occidente. L’irrompere delle potenze personali è il passo successivo in una distopia a democratica. Al nuovo liberalismo tecnologico manca la pietra angolare di base, il consenso dei cittadini che si vuole sostituire con quello dei clienti.

L’occasione della delenda Russia sta ricostruendo l’alleanza massiva di volenterosi. E’ l’occasione per lo Stato Guida di rivedere teorie, politiche, impostazioni ed il suo stesso ruolo, recuperando la democrazia tolta dal liberalismo digitale. Ora se lo può permettere, dato il riallineamento, dopo molto tempo, in questo istante di liberalismo e democrazia, fuori dalla dicotomia indicata a suo tempo da Ocone.

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