Spesso si crea confusione su cosa provoca un tumore: a volte i dubbi sono legittimi, altre no. La risposta di Luigi Grassi, past president della Società italiana psiconcologia
Milano 9 Settembre – Non è raro che si crei confusione su cosa può provocare un tumore: esistono teorie oggi superate che continuano a tornare «a galla» e numerosi «falsi miti» duri a morire nonostante la scienza abbia ampiamente dimostrato che si tratta di bufale prive di ogni fondamento. E poi ci sono delle domande ricorrenti, dubbi che nascono dal «sentito dire» o che hanno un fondamento, per i quali esiste una risposta provvisoria o definitiva, che però non sempre viene fornita in modo chiaro. Diversi studiosi, per esempio, hanno tentato negli anni di rispondere a un’ipotesi che periodicamente viene risollevata: ansia, stress (magari proprio quello lavorativo), preoccupazioni, dispiaceri possono favorire l’insorgenza di un tumore?
Esiste, insomma, un legame tra psiche e cancro? La risposta, per ora, è sempre stata la stessa: non esiste alcuna dimostrazione scientifica. Ma è una risposta definitiva? Ci sono nuove evidenze? Lo abbiamo chiesto a Luigi Grassi, past president della Società italiana di psiconcologia (Sipo) e direttore della Clinica psichiatrica all’Università di Ferrara.
Un salto nella storia
«Il dubbio nasce da osservazioni risalenti all’inizio della storia della medicina – chiarisce Grassi -: da Galeno e da molti medici nei secoli successivi, che nella loro esperienza clinica indicavano come persone con aspetti depressivi o melancolici fossero più soggetti a sviluppare patologie neoplastiche. Sia per le patologie oncologiche che per quelle depressive veniva immaginato un fattore causale comune: l’eccesso di bile nera. A partire dalla metà del secolo scorso (con lo sviluppo della medicina psicosomatica e con la “pretesa” di trovare in meccanismi psichici gli agenti causali di malattie fisiche, quali ulcera, diabete, infarto o cancro), si è sviluppata una linea di tendenza parallela di fondo a quanto avveniva in laboratorio nello studio delle conseguenze dello stress sull’animale».
Lo studio sui topi
«È pur vero che alcune osservazioni di quegli anni e degli anni successivi (fino agli anni ‘80-‘90) hanno indicato come l’accumularsi di eventi stressanti rende più esposto l’individuo a sviluppare malattie. Allo stato attuale tuttavia, per le patologie oncologiche si può parlare al massimo di modulazione del decorso della malattia più che di influenza causale sulla origine. È indubbio che molta ricerca di laboratorio condotta già a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso su animali, in particolare cavie e topi hanno dimostrato come animali stressati (isolamento forzato, ruote girevoli, ecc.) fossero più sensibili allo sviluppo di cancro indotto da virus rispetto ad animali non sottoposti a stress: in termini sia di insorgenza del tumore sia di diffusione delle metastasi, a causa dell’attivazione ormoni dello stress (cortisolo in particolare) e per la riduzione dell’attività immunitaria».
Studi sull’uomo eticamente impossibili
« Dati contradditori sono stati riportati anche nell’uomo, ma con tutte le difficoltà del caso, tra cui l’impossibilità etica di attivare stress da laboratorio, la complessità dell’essere umano e delle sue risposte biologiche, la valutazione dello stress in termini soggettivi e non oggettivi. I dati più robusti riguardano la condizione depressiva, che in molti studi condotti nell’uomo si è dimostrata co-facilitare la progressione della malattia (in alcune forme di tumore, come mammella e ovaio), sempre sulla base della relazione biologica esistente tra depressione, meccanismo dello stress e attivazione delle vie biologiche che sottendono alla diffusione delle metastasi. Ma questa conclusione non credo potrà essere definitiva, poiché è da rivedere l’ipotesi di partenza: l’insieme delle diverse patologie oncologiche è multicausale per definizione e la formazione di un tumore prevede l’intrecciarsi di moltissime variabili tra loro, che certamente riguardano in sintesi fenomeni ambientali, comportamentali, genetici, infettivi e molti altri ancora a seconda del tipo di cancro».
Il rischio della trappola del «pensare positivo»
«Lo stress è per definizione la “risposta adattativa e fisiologica aspecifica a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei”. Certo all’esaurirsi delle risorse di risposta si assiste ad una caduta delle difese e quindi a una maggior vulnerabilità generale del soggetto. La ricerca futura dovrà ad esempio andare oltre il classico concetto dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene secondario allo stress e essere in grado di approfondire gli effetti dello stress a livello delle strutture geniche individuali, capire se gli interventi psicoterapici o psicofarmacologici hanno un’influenza riparativa su tali meccanismi, nel momento in cui dovrebbero ridurre la risposta di stress. Il tutto è da leggere con grande umiltà e prudenza e certamente le ipotesi dell’esistenza di una specifica personalità a rischio per cancro (chiamata Tipo D) va molto ridimensionata. Infine, sicuramente incrementare le difese psicologiche attraverso risorse interne (ad esempio tecniche di rilassamento, mindfullness) ed esterne (quali supporto sociale e interpersonale, attività motivazionali, attività fisica) facilita le rispose anche biologiche dell’organismo rendendolo certamente più resistente allo stress. E ciò è valido per qualunque condizione dell’individuo, quindi per qualunque patologia. L’ottica insomma è quella di una recovery (o recupero e riabilitazione) dell’organismo nel suo insieme di biologia, di attività mentale, di relazioni sociali e di valori individuali. Non dobbiamo tuttavia cadere in quella che negli Stati Uniti è definita la “trappola del pensare positivo”, una sorta di schiavitù mentale che determina conseguenze anche negative, tra cui colpevolizzare chi non è in grado di attivare risorse psicologiche e chiedere aiuto, instillando il dubbio che se la malattia si complica la persona ne è la causa prima».
Vera Martinella (Corriere Salute)
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