Milano 10 Ottobre – Giuliano Pisapia, l’ex sindaco di sinistra di Milano, ha iniziato la sua collaborazione con la Repubblica e a lavorare con la Repubblica ha iniziato in prima pagina invocando la legalizzazione dell’eutanasia.
La retorica con cui lo fa è nota. Descrive e invoca il caso pietoso, patetico, estremo, liminare, quello di fronte al quale non tratteniamo lo sdegno e forse nemmeno la lacrima, ci ricolmiamo di rabbia contro tutto e contro tutti, gridiamo, imprechiamo, e poi però ridislochiamo le nostre eruzioni cutanee in quota pietà invocando come una liberazione e una benedizione la morte ‒dell’altro. Il caso è quello che Pisapia ha letto il 5 ottobre sempre su la Repubblica di ‒ trascrivo le parole dell’ex sindaco ‒ «[…] Davide, nato senza reni e senza apparato urinario, affetto da una “malattia costantemente infausta”, senza alcuna possibilità di sopravvivenza, condannato a morire presto ma intanto “trattato come cavia”». Da quando, prosegue Pisapia, «ho letto le parole dei suoi genitori “oggi viviamo il dramma, sì all’eutanasia, lasciar andare è un atto d’amore”, ho pensato che questo è un tema che è ora di affrontare, con il cuore caldo e la mente fredda».
Sarebbe invece ora di piantarla. La tecnica di sbattere in faccia e in prima il caso pietoso per ottenere l’imposizione a un Paese intero di una legge generale puzza lontano un miglio. È una brutta cosa e quindi non si deve fare. Dico il perché dopo avere prima preso di petto due altre questioni.
La prima emerge dal virgolettato qui sopra. La storia è lastricata di atti d’amore che hanno mandato al macello milioni di persone. Non ne vogliamo più.
La seconda è contenuta nelle parole che Pisapia prende a prestito da Indro Montanelli: «se noi abbiamo un diritto alla vita abbiamo anche un diritto alla morte» (inteso come possibilità pure di darsi la morte). Con tutto il rispetto per il guru dei giornalisti, sono balle. Anche un cieco, anche un laico vede che io non mi do la vita da me, che la vita mi precede sempre e comunque. L’inalienabile diritto alla vita della persona umana è proprio il riconoscimento del fatto che nessuno uomo èpadrone della vita, nemmeno della propria. E questo è un dato di fatto incontrovertibile, laico, oggettivo, scientifico. Gli amici ciellini, nel loro gergo immaginifico, direbbero che il diritto alla vita è un compito: quello di prendere atto di qualcosa che non si possiede e che dunque chiede soltanto di essere custodito. Ovvero accolto, difeso, protetto, nutrito, educato, accompagnato. Io sono mia, o mio, è la più grande bugia del mondo. Lo è perché è del tutto evidente che noi non possediamo la vita che è in noi, la quale irrompe nella storia, portando ognuno di noi, Pisapia o Respinti, ad abitarla, sempre senza chiedere il permesso né a Pisapia né a Respinti. Né io né nessun altro possediamo le nostre vite: è la vita che possiede noi ‒ e, nel caso particolare di chi ha il dono di quella fede che non ripugna mai alla ragione, l’Autore della vita. Della nostra vita che ci precede e ci supera noi siamo ipastori. Il diritto alla vita che abbiamo esclude che abbiamo un diritto alla morte (inteso come possibilità pure di darsi la morte).
Torno dunque alla questione lasciata in sospeso e concludo. Se la logica con cui si muove e commuove (la tradizione che va da Aristotele a Quintiliano ci ha insegnato come farlo) il pubblico ad accettare l’idea che un essere umano possa sopprimerne un altro per fargli un favore è quella che strumentalizza il dolore del caso limite, chi pone poi limite al caso? Mettiamo che con un caso limite Pisapia conquisti il suo prossimo, convinca il legislatore o il popolo di un ipotetico referendum (come fu fatto con la diossina di Seveso per l’aborto). Mettiamo dunque che il caso limite serva per scrivere una legge generale dello Stato. Chi deciderebbe poi cosa è limite e cosa non lo è, cosa è caso limite e cosa non lo è, cosa è il caso da eutanasia e cosa non lo è? Il potere dello Stato, la forza di una legge positiva, una maggioranza parlamentare, una consulta di esperti, una commissione ad hoc, un pool di giudici, un voto, un sondaggio, i nostri pensierini, i nostri sentimenti, la nostra soglia del dolore, l’idea che ognuno si è fatto della dignità umana e del senso della sofferenza, quel che ci va, Pisapia?…
Marco Respinti (L’Intraprendente)
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